Editoriale

Di proibizionismo si muore

Di proibizionismo si muoreSbarchi di inizio luglio a Lampedusa – Reuters

Lampedusa Domani è un altro giorno e tutto sarà come prima

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 8 ottobre 2013

È stato un massacro. Prevedibile, previsto, da alcuni finanche voluto. L’intensificarsi dei flussi di eritrei, somali e siriani alla ricerca di una nuova terra era noto e comprovato dagli ultimi sbarchi. Non c’è stato bisogno delle «mitragliatrici» invocate dal razzismo leghista. È bastato il dispiegarsi del proibizionismo, ottuso e crudele, che disciplina, nel nostro paese, le migrazioni, tutte le migrazioni anche, di fatto, quelle di chi, nel paese d’origine, è privato delle libertà fondamentali e per questo dovrebbe essere tutelato (art.10, terzo comma, della Costituzione). Una conseguenza diretta, non un effetto collaterale. Di un proibizionismo risalente, formalizzato nella legge n.40 del 1998 (che reca in calce la sottoscrizione dei ministri Giorgio Napolitano e Livia Turco).
E spinto fino al parossismo dalla legge Bossi-Fini e dalle sue appendici con cui – attraverso la previsione del reato di clandestinità – si è trasformato il migrante in reato. Qui sta la radice del problema. Il resto sono chiacchiere e lacrime di circostanza, inutili e ipocrite.
In un libro scritto nei mesi scorsi e in uscita in questi giorni per le Edizioni Gruppo Abele (Lampedusa. Conversazioni su isole, politiche, migranti), Giusi Nicolini – sindaca, determinata e coraggiosa, dell’isola: tra i pochi a potere, oggi, gridare «vergogna!» senza arrossire – ha scritto: «Che posso dire, io, da Lampedusa? Posso dire che quantomeno salvarli è doveroso. Quando chiedo di non lasciare sola Lampedusa, chiedo in realtà di non abbandonare sole queste persone a un destino assurdo. Chiedo di cominciare a pensare a un sistema di accoglienza reale e non fittizio non solo a Lampedusa, ma in tutta Italia. Chiedo di cominciare a capire che c’è posto e spazio e che abbiamo bisogno dei migranti. Ma chiedo anche di confessare che quel che vogliamo non sono persone bensì braccia per lavorare […]. Sono state respinte in mare persone che avevano diritto di asilo. Sono stati respinti barconi su cui c’erano donne (alcune incinte), bambini, minori non accompagnati. E un uomo delle istituzioni si è permesso di dire che i barconi devono essere affondati, anche con i cannoni (con una affermazione che dovrebbe essere prevista come reato contro l’umanità, aggravata dalla qualità di uomo politico del suo autore, perché non si può riconoscere la libertà di dissacrare la vita umana con espressioni pubbliche di quella portata). Ebbene, la grande maggioranza delle persone che passano da Lampedusa hanno poi avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico o una protezione umanitaria. E, allora, la domanda che pongo è: perché in un Paese come l’Italia e in Europa il diritto di asilo deve essere chiesto a nuoto? Perché bisogna lasciare che madri con i bambini in braccio si imbarchino per il Mediterraneo? Perché bisogna occuparsi solo dei sopravvissuti che arrivano qui? Non è un crimine aspettare che i migranti siano decimati dal mare? Comunque i profughi partono e arrivano, non hanno un’altra possibilità. È sbagliato parlare di quote e di flussi, che mi sembrano parole improprie».
E, invece, a tre giorni dal massacro la stessa notizia sta scivolando nelle seconde file di quotidiani e telegiornali. I cadaveri – le centinaia di cadaveri – di bambini, donne, ragazzi, uomini inghiottiti dal mare o adagiati sulla spiaggia sono ormai un ricordo, che ha meritato le lacrime di un giorno, qualche invettiva contro gli scafisti (indicati, per salvarsi l’anima, come i veri colpevoli, magari da linciare sul posto), qualche recriminazione nei confronti dell’Europa, l’accusa di demagogia a chi ha chiesto la modifica della legislazione vigente. Domani è un altro giorno e tutto tornerà come prima. Come è accaduto dopo la strage di Natale del 1996, quando 283 migranti provenienti dall’India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka morirono annegati di fronte a Portopalo (e la tragedia fu, per mesi, addirittura negata). Come è accaduto dopo i 57 albanesi morti della Kater i Rades, speronata il 28 marzo 1997 nel canale d’Otranto da una corvetta della marina militare italiana. Come è accaduto decine di altre volte.
Eppure la storia del mondo è storia – non di condottieri e generali – ma di popoli che si spostano e la chiusura delle frontiere non impedisce né contiene le migrazioni ma, semplicemente, uccide e crea un surplus di sofferenza. C’è stato un tempo in cui questa semplice verità non faceva scandalo. Un tempo in cui Lampedusa era un porto franco in cui potevano approdare migranti e schiavi in fuga senza che nessuno potesse fare loro del male. Un tempo in cui la Costituzione francese dell’anno primo (1793) attribuiva i diritti di cittadino, al pari dei nati in Francia, a «ogni straniero che, domiciliato in Francia da un anno, vi viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio o sia giudicato da Parlamento aver ben meritato nei confronti dell’umanità».
Il proibizionismo non è un destino o una necessità. È una barbarie. E una scelta. Se così è, le lacrime – per non essere pura ipocrisia – devono accompagnarsi a un impegno per tutti e per ciascuno: mai più un voto, mai più un’apertura di credito, mai più un appoggio a chi – tra le forze politiche – non assume iniziative concrete e determinate per cambiare la legge sull’immigrazione (e per cambiarla non con gattopardeschi ritocchi di facciata, ma in modo radicale).

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