La lunga marcia verso l’emancipazione femminile al centro della serie Di padre in figlia prodotta da Angelo Barbagallo e da Raifiction, nata da un’idea di Cristina Comencini e scritta a sei mani da Giulia Calenda con Francesca Marciano e Valia Santella, in onda dal 18 aprile in prima serata su Raiuno. Quattro puntate per un arco di tempo che si estende dal 1958 fino ad arrivare alle soglie degli anni 90, dove si dipana con più di un colpo di scena la storia della famiglia Franza che dal Brasile arriva a Bassano, dominata da padre padrone Alessio Boni, proprietario di una distilleria. Storie tormentate e segnate dal rapporto con la moglie Stefania Rocca, remissiva all’inizio e poi nel tempo consapevole dei suoi diritti, e con le due figlie maggiori – tanto diverse tra loro – interpretate da Cristiana Capotondi e Matilde Gioli.

Dal patriarcato passando per il ’68 riprodotto con immagini in bianco e nero delle Techerai e in sottofondo la Canzone di maggio di De Andrè, la legge sul divorzio, il tabù della verginità e le nozze «riparatrici», l’aborto e il femminismo ovviamente ricondotto a misura di fiction, con tutti i limiti e le inevitabili costrizioni del formato seriale. Certo Riccardo Milani, regista, e le sceneggiatrici qua e là osano: la scena iniziale è decisamente «forte» per il pubblico di Raiuno: Stefania Rocca, incinta, va a recuperare il marito nel bordello di Bassano e minaccia di partorire lì se l’uomo non torna a casa. Alessio Boni/Giovanni Franza tratteggia un ritratto di padre-padrone tipico di molte famiglie del nord-est contadino (e non solo) del dopoguerra con notevole efficacia:

«ll mio personaggio despota e tiranno? No, era semplicemente un uomo del 1950. Era mio bisnonno, mio nonno. Il patriarcato in quegli anni era la norma. È terribile guardandolo con gli occhi di oggi, ma era così. Era quello che sentivo raccontare da mia nonna, costretta prima a servire tutti i maschi di famiglia e poi – insieme alle sorelle e altre donne – mangiava ma in un’altra stanza della casa».

«Ho cercato – spiega il regista Riccardo Milani – di sottolineare i mutamenti e l’emancipazione femminile proprio partendo dalla figura del capofamiglia che non sa rapportarsi con i cambiamenti, si aggrappa alle sue certezze e al bisogno di tramandare all’unico figlio maschio il ruolo guida dell’azienda di famiglia». Cristiana Capotondi è la primogenita Maria Teresa, vuole studiare chimica a Padova ma si scontra con l’intransigenza del genitore: «Io la definisco una piccola rivoluzionaria – spiega l’attrice, s’immagina un mondo diverso in cui uomini e donne abbiano gli stessi diritti». In una scena il padre la costringe a una visita per «verificare» la sua verginità, è la rottura definitiva del loro rapporto: «È una scena simbolica segna la disperazione dell’età adulta, quando il padre muore dentro di lei».

Nelle quattro puntate le figure maschili non fanno una bella figura e ne escono spesso con le ossa rotte. Figure incerte, deboli e al contempo prepotenti, come il figlio maschio (Roberto Gudese) su cui sono riposte tutte le ambizioni di Giovanni e che alla fine pur di compiacere il genitore, ne verrà travolto.