«Ho detto che potevamo firmare un contratto di governo con Salvini. E che eravamo disposti ad accettare che quel contratto potesse essere sostenuto da Forza Italia e da Fratelli d’Italia. Ma era chiaro ed evidente che l’interlocuzione dovesse avvenire tra noi due», dice Luigi Di Maio dopo le consultazioni a palazzo Giustiniani. Ecco la novità di una giornata che comincia con l’apertura di Danilo Toninelli al Pd e si consuma, al contrario, con segnali molteplici che sembrano alludere all’improvvisa riapertura del forno leghista (e di centrodestra) per il Movimento 5 Stelle.

Il tentativo di Di Maio è andato a vuoto, lui si mostra sereno ma gioca sul filo del rasoio. Perché prima che arrivi la chiusura di Forza Italia e il rifiuto di Silvio Berlusconi a farsi da parte per limitarsi a fornire un appoggio esterno e indicare un paio di ministri d’area nel governo Di Maio-Salvini, l’aspirante premier dei 5 Stelle si spinge più avanti di quanto non abbia fatto nelle scorse settimane. Accettando i voti del centrodestra intero ma riconoscendo come interlocutore unico soltanto il leader leghista, il capo politico grillino considera di aver fatto a Salvini un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Manda un segnale che per qualche ora fa traballare i potenziali firmatari dell’ormai fantomatico «contratto di governo» e che però è destinato a produrre effetti all’interno del M5S.

Riavvolgiamo il filmato e torniamo a ventiquattr’ore prima della comunicazione di Di Maio. Nel corso dell’assemblea dei gruppi parlamentari grillini, di fronte ai suoi, il capo recita la parte del puro e duro. Ai circa 300 convenuti chiede: «Mi hanno proposto di fare un’alleanza con l’ammucchiata di centrodestra ma io ho detto di no, se qualcuno è contrario alzi la mano». Come previsto, la platea resta immobile. Anche le sfumature paiono scomparire, i grillini che nei giorni precedenti avevano attaccato Berlusconi allo scopo di cannoneggiare ogni accordo col centrodestra rientrano nei ranghi. In realtà, dicono i retroscena, prima di pronunciare quelle parole Di Maio aveva sentito Salvini e posto le condizioni per la riapertura delle trattative.

La mossa del leader grillino serve a diversi scopi. È necessaria a tentare il tutto per tutto prima di avviare una trattativa col Pd che viene considerata poco gradita dalla base e più difficile. In più, la mossa di Di Maio torna utile a spegnere la fiammella che rischia di diventare un incendio e che risponde al nome di Roberto Fico. Per la prima volta, nelle ore che precedono la giornata di ieri, i grillini hanno accettato di prendere in considerazione lo scenario dell’incarico al presidente della camera. Il capogruppo a palazzo Madama Danilo Toninelli si rifugia in tecnicismi ma le suo parole trasudano freddezza: «Tirare in ballo Fico significherebbe scegliere la strada dell’incarico istituzionale. Noi però chiediamo un’altra cosa, vogliamo che si formi un governo politico». Dunque, è l’auspicio dei vertici, Fico è fuori dai giochi e non rientra nelle strategie.

Infine, Di Maio ci tiene a mostrarsi intraprendente e scafato di fronte ai numerosi parlamentari che provengono dal mondo delle professioni del Mezzogiorno e che scalpitano di fronte alla prospettiva del governo. Nella maggior parte dei casi sono stati eletti nell’uninominale e candidati dall’alto, col suo placet. Nei giorni scorsi è circolato il comunicato a firma di tre parlamentari grillini eletti in collegi uninominali tra Avellino e Salerno. Tutti giurano fedeltà e negano un loro possibile passaggio con il centrodestra. Si tratta dei senatori Francesco Castiello, già consigliere giuridico per la presidenza del consiglio dei ministri alla fine degli anni ottanta, e Francesco Urraro, ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Nola, e del deputato Michele Gubitosa, imprenditore nel settore delle telecomunicazioni. Le loro candidature in alcuni casi crearono polemiche e costarono il posto ad attivisti storici passati per le parlamentarie online. L’inquietudine che viene loro attribuita, al netto delle smentite, potrebbe essere rappresentativa del clima che si respira in alcune frange dei compositi gruppi parlamentari pentastellati.