«I grillini non esistono più» ha detto martedì scorso, quasi a mezza bocca, Beppe Grillo dal palco del teatro Brancaccio, dopo che la maggioranza degli iscritti alla piattaforma Rousseau aveva ratificato il salvacondotto per Matteo Salvini. Pareva quasi una presa di distanza dalla mutazione genetica del Movimento 5 Stelle di governo, proprio nei giorni del voto sull’immunità per il ministro dell’interno. Due giorni dopo, però, il «garante» del M5S è protagonista di tutt’altro spettacolo: indossa un’altra maschera, si spoglia da quella di guastatore e torna nei panni del padre nobile.

Così incontra Luigi Di Maio e Davide Casaleggio nel solito albergo romano che affaccia sui Fori e che funge da quartier generale in occasione delle trasferte romane. Se è eccessivo dire che il «capo politico» Di Maio ha partecipato al vertice gettando sul tavolo gli scalpi dei suoi oppositori, di certo ne esce ostentando sicurezza e rilanciando il suo progetto di ristrutturazione del M5S. Di Maio ha bisogno dell’appoggio di Casaleggio e Grillo, perché la consultazione sul caso Diciotti si è trasformata in una specie di voto di fiducia sulla sua gestione e ha palesato l’insolita e sostanziosa minoranza di circa il 40% dei votanti.

Più di un parlamentare aveva fatto notare che questa minoranza avrebbe detto la propria sulla linea politica, il rapporto con la Lega, la gestione dell’organizzazione interna. Di Maio deve assolutamente rifuggire questo schema, evitare un logorante confronto interno che finirebbe per metterlo sotto esame.

Per questo esce dall’incontro e annuncia sprezzante: «Non credo che si debba usare quel 40% con discorsi alla Cirino Pomicino», dice rivolgendosi proprio a chi rivendica la conta interna. «Sono contento che ci siano senatori che hanno detto che si adegueranno al voto degli iscritti», afferma ancora Di Maio per chiarire che i rapporti di forza non cambiano: chi ha la maggioranza decide. Può consentirsi una forzatura del genere perché sa che in effetti dietro quella percentuale non esiste una vera e propria corrente politica, con una linea definita e strumenti di coordinamento. È ancora più esplicita Paola Taverna, ma rende l’idea dello scontro: «La rivoluzione non si fermerà – scrive su Facebook la vicepresidente del senato – E sicuramente non sarà una pletora di miserabili a preoccuparci».

Il vertice tra Grillo, Di Maio e Casaleggio dura tre ore. «Abbiamo pranzato insieme e conveniamo tutti che ci sia bisogno di un’organizzazione del M5S sia a livello nazionale che locale per essere competitivi anche alle amministrative», racconta Di Maio. Parla dell’esigenza di aprire ad alleanze con liste civiche locali e dell’apertura a relazioni sul territorio «a partire dalle imprese». Poi aggiunge che gli iscritti verranno presto consultati anche «su alcune regole che riguardano i consiglieri comunali».

L’idea, anticipata da Manlio Di Stefano nei giorni scorsi, è di non conteggiare gli incarichi negli enti locali nella tagliola dei due mandati, per porre rimedio ad uno dei problemi principali del M5S: molti non vogliono bruciarsi candidandosi alle comunali, puntano direttamente al parlamento. L’esempio illustre di questi giorni è quello di Filippo Nogarin, il sindaco di Livorno che ha anticipato di non volersi ricandidare alle comunali per correre alle europee. Di Maio annuncia l’inizio del mutamento che porterà il M5S in una nuova fase della sua esistenza. È la conferma di quello che i suoi collaboratori più stretti avevano annunciato prima del voto online su Salvini: «Nulla sarà più come prima».