Quando comincia la settimana che condurrà alle elezioni, dal Movimento 5 Stelle giocano le ultime carte. Nonostante caos rimborsi, massoni candidati ed espulsioni preventive, hanno la convinzione di confermarsi primo partito. Sfuma, e praticamente non compare neanche negli scenari propagandistici, il sogno dello sfondamento definitivo.

LA PARTITA COL CENTRODESTRA riguarda i collegi del sud e investe la forza normalizzatrice di Luigi Di Maio. Che domenica è apparso in coppia con Alessandro Di Battista a Mezz’Ora in Più, il programma di Lucia Annunziata. Di Battista, l’uomo della strada reduce da cinque anni di parlamento e tornato «semplice cittadino», dice di essersi rivisto e di aver apprezzato la performance televisiva della coppia: «Forse è stata l’intervista più bella che abbiamo fatto». Ma in quell’intervista, i due volti grillini, quello istituzionale e quello indignato hanno consumato un passaggio importante.
Intanto, Di Maio ha confermato che la lista dei membri del governo a 5 Stelle che avrebbe voluto consegnare al presidente Mattarella solo qualche giorno fa, sarà costituita soprattutto da non aderenti al M5S. «Non sono persone del M5S ma patrimonio del paese – ha spiegato – Sono figure tecniche che mettono testa e cuore in quello che fanno».

L’OPERAZIONE di cercare i voti in parlamento sulla base di un programma e di un esecutivo già bell’e pronto, richiede la collaborazione del presidente della Repubblica. Ecco perché Di Maio cerca a tutti costi di smussare gli angoli, e di alleggerire la portata di quella che parrebbe una forzatura istituzionale. Non smette di blandire Mattarella («Siamo fortunati ad avere questo presidente in questa fase») ma non manca di ribadire il ruolo centrale del M5S («Nella prossima legislatura o parlano con noi oppure si torna a votare»). La presentazione ufficiale della «squadra di governo» è prevista per il pomeriggio di giovedì prossimo a Roma, al Salone delle Fontane dell’Eur. Per Esteri, Interni e Difesa, Di Maio annuncia: le designate sono tre donne. «Sono profonde conoscitrici di quella materia, si sono sporcate le mani, hanno lavorato negli scenari esteri, con i vari contingenti della difesa e con i nostri apparati di sicurezza», sostiene il capo politico del M5S.

L’UNICO NOME CHE CIRCOLA, con il dubbio che possegga il giusto blasone per il ministero degli Interni, è quello della criminologa presentata come esperta di sicurezza Paola Giannetakis, candidata all’uninominale nel collegio di Perugia.

L’IMPRESSIONE è che via via che si definisce la linea strategica di un M5S che si propone come baricento di una sorta di grossa coalizione basata su quello che definiscono un «contratto di governo», le discriminanti programmatiche vadano dissolvendosi, quasi alla ricerca di un minimo comun denominatore che attragga gli altri partiti. Sulla Difesa, ad esempio, non si parla più di tagliare i fondi agli F35. E non si menziona più la «fine ai privilegi» (i militari nei lavoratori preparatori del programma sulla piattaforma Rousseau furono chiamati «casta», e la cosa già mesi fa creò divisioni interne). Non si sente citare neppure la dismissione di beni militari a favore di utilità sociale, come avveniva fino a poco tempo fa. Ancora, il taglio delle spese militari diventa solo taglio agli sprechi. E che dire della patrimoniale? Per Di Maio è una misura «illiberale», da evitare a tutti i costi.

IL 2 MARZO, la campagna elettorale si chiuderà in piazza del Popolo. Ad affiancare Di Maio ci saranno Alessandro Di Battista, Beppe Grillo, Davide Casaleggio e la sindaca di Roma Virginia Raggi. Ci sarà anche Roberta Lombardi, che nel primissimo annuncio dell’evento non era stata menzionata, forse perché i sondaggi non le danno grandi speranze nella rincorsa a Nicola Zingaretti per la presidenza della Regione Lazio. Ma i grillini confidano che il voto per le elezioni politiche traini quello per le amministrazioni regionali.