Le indicazioni che emergono dai gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle che alla fine della giornata di ieri si sono ritrovati in assemblea sono chiare eppure confliggenti: non è possibile accettare la Tav in nessun modo e in nessuna forma, ma il governo gialloverde deve continuare a percorrere la sua strada. «Una crisi sulla Tav sarebbe una follia» dice ad esempio Danilo Toninelli, il ministro che ha gestito il dossier. Anche se il capogruppo al senato Stefano Patuanelli la mette giù più duramente e drammatizza la situazione: «Se non c’è Tav ci sarà ancora governo», afferma rivolto ai parlamentari nel corso di una riunione blindatissima, coi giornalisti tenuti a distanza.

Nel pomeriggio, prima ancora che il presidente del consiglio Giuseppe Conte parli alla stampa e comunichi l’impossibile sintesi tra il M5S e la Lega, Luigi Di Maio fa una mossa inedita per le consuetudini grilline: scrive ai parlamentari per preparare il terreno del confronto serale.

Il «capo politico» grillino anticipa che l’accordo con Matteo Salvini non si è trovato. «Abbiamo posizioni diverse ma non stiamo litigando», questa è la versione che trapela dai vertici ristretti e che verrà ribadita da Conte in conferenza stampa. Traduzione: nessuno ha intenzione di giocarsi il governo sulla Tav, cerchiamo di gestire le discrepanze. Di Maio fa una premessa che riguarda la qualità del disaccordo nella maggioranza di governo. Allo stesso tempo è consapevole di rivolgersi a parlamentari che sono preoccupati soprattutto di una cosa: non hanno alcuna intenzione di tornare all’opposizione o, peggio ancora, di andare a casa. Questa posizione emerge dalle parole pronunciate a microfoni spenti dai deputati e senatori che a parole sono tra i più fermi nell’opposizione all’Alta velocità: «Il voto sulla Tav non è un voto di fiducia», dicono in molti. Lo aveva detto lo stesso Alberto Airola, senatore torinese in prima linea accanto alla Val Susa, molto applaudito all’assemblea di ieri sera: «Sono sicuro che il governo non cadrà, nessuno vuole tornare alle grandi intese».

Di Maio si muove nelle pieghe della politica di palazzo, ha imparato a dosare accenti e a soppesare le sfumature. Relaziona ai parlamentari centellinando le parole e distinguendo i due «passaggi» necessari a fermare la grande opera. «Il primo è quello del blocco dei bandi – spiega – sui quali bisogna decidere entro questo lunedì».

Questa condizione può verificarsi per volontà del consiglio dei ministri (ma su questo Lega e M5S hanno ampiamente verificato non esserci accordo) o, spiega, «tramite un atto bilaterale Italia-Francia che intervenga direttamente sul consiglio di amministrazione di Telt, la società italofrancese che gestisce gli appalti del Tav».

Il secondo passaggio enunciato da Di Maio assomiglia molto alla proposta avanzata dalla Lega negli scorsi giorni: quella di parlamentarizzare la questione, sottoponendo alle camere «il no definitivo all’opera». Questo è il crinale stretto dentro al quale si muovono i vertici grillini per slegare la decisione sulla Tav dalla sopravvivenza dell’esecutivo: ottenere una sospensione dei bandi «per ridiscutere l’opera come previsto dal contratto di governo» e in virtù «dell’aspetto considerato critico anche dalla Lega», cioè lo squilibrio di impegno economico tra Francia e Italia. «Siamo noi, col nostro sforzo, ad aver finora garantito la partenza dei bandi», dice Toninelli ai parlamentari per rafforzare questa posizione. Una sospensione consentirebbe di rimandare la decisione finale ad un voto parlamentare che nelle intenzioni dello stato maggiore dei 5 Stelle dovrebbe tenersi dopo il giro di boa delle elezioni europee. Sarebbe quella la sede per registrare il dissidio, derubricato a semplice differenza di vedute con i leghisti senza ricadute sul governo.

Di questa manovra si accorge Luigi Gallo, deputato considerato vicino a Roberto Fico. Ancora prima del vertice serale formula via Facebook un vero e proprio monito: «Il governo non scarichi sul parlamento la responsabilità delle scelte sulla Tav». Gallo dice quello che in molti sanno, siede alla camera dove i numeri sono solidi. Ma cosa succederebbe se i dissidenti dovessero far vacillare la maggioranza al senato?