Il reddito di precarietà, la pensione di cittadinanza e la quota 100 non saranno in ddl collegati alla legge di bilancio, ma saranno istituiti da uno o più decreti legge del Consiglio dei ministri dopo l’approvazione della manovra a Natale. Il nuovo cambio di strategia è stato comunicato ieri dal vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio secondo il quale le «norme ordinamentali» non possono essere approvate nella legge di bilancio. «Non lo faremo con un disegno di legge – ha confermato Di Maio – ma con un decreto legge perché l’Italia non può aspettare. In manovra ci sono i soldi, c’è la ciccia».

DI MAIO HA RIBADITO che la «pensione di cittadinanza» partirà tra «gennaio e febbraio 2019». Il sussidio di povertà impropriamente detto «reddito di cittadinanza» partirà «tra inizio e fine marzo» insieme a una riforma epocale dei centri per l’impiego. Di Maio ha risposto così a una delle «anticipazioni», via agenzie stampa, dell’ultima strenna di Bruno Vespa. In un passaggio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti ha detto: «Il reddito di cittadinanza ha complicazioni attuative non indifferenti. Se riuscirà a produrre posti di lavoro, bene. Altrimenti resterà un provvedimento fine a se stesso».

APRITI CIELO. Dalla Tunisia il premier Giuseppe Conte è intervenuto, assicurando che i fondi esistono, il »reddito partirà l’anno prossimo» e che sulla «riforma» si fa talmente attenzione da non averla inserita nella legge di bilancio per «farla bene e con tutti i dettagli». Motivazione che potrebbe anche dire un’altra cosa: le non indifferenti difficoltà di realizzare in poche settimane il sistema non permettono al momento di definire il quadro tecnico e legislativo, oltre che le sue prospettive. Da qui anche le perplessità di Giorgetti la cui uscita ha prima costretto «fonti» della Lega a smentire l’esistenza di uno «scontro con il premier Conte». Di ritorno dalla Tunisia Conte ha incontrato Giorgetti e, insieme, hanno convenuto il testo di un comunicato in cui si sono detti «sorpresi dalle polemiche inutili e pretestuose». Polemiche create dallo stesso Giorgetti, in fondo. I dubbi del sottosegretario sono in realtà fondati. Non solo perché il nuovo sistema non produrrà «posti di lavoro», perlomeno in tempi ragionevoli e comunque non prevedibili. Ma perché produrrà la moltiplicazione di un precariato ancora più feroce.

DI MAIO ESCLUDE il fatto che serviranno molti più fondi dei 9 miliardi stanziati per coprire una platea, ancora non determinata, di «poveri assoluti». Al momento sarebbero sei milioni, talvolta comprensivi dei 3,6 milioni di italiani poveri e di 1,6 milioni di pensionati che percepiscono un assegno inferiore a 500 euro mensili. Altre volte, si contempla una percentuale non precisata di stranieri poveri residenti da almeno 5 anni. L’indeterminatezza della platea, insieme alla reale fattibilità della trasformazione dei centri per l’impiego nei «Job Center» tedeschi in soli tre mesi, rafforza i dubbi contro i quali Di Maio reagisce riproponendo un timing che lascia perplessi. Toccherà aspettare un paio di mesi per capire qualcosa di più sugli incentivi alle imprese che assumeranno beneficiando, si dice, di tre mesi del «reddito» destinato alla persona. Oppure la reale capacità dei centri per l’impiego di adottare, dal nulla, l’algoritmo applicato nel Mississippi dal guru Mimmo Parisi scelto da Di Maio per affilare l’allineamento della domanda (ancora inesistente) a un’offerta di lavoro forse ingente.

IL GOVERNO è stato criticato per la scelta di creare due fondi con una dotazione di 9 miliardi all’anno per il «reddito» e un altro da 6,7 miliardi nel 2019 e 7 nel 2020. Provvedimenti che dovrebbero essere inseriti in disegni di legge collegati alla legge di bilancio, in tutto dovrebbero essere 12. La strada scelta potrebbe un’altra, quella di un disegno di legge del governo, non più «collegato» alla legge di bilancio. Questa incertezza, anche legislativa, non rende più trasparente un iter evidentemente faticoso che risente di perplessità interne alla maggioranza, messa sotto pressione dall’annunciata «bocciatura» della manovra da parte della Commissione Ue e dalla dichiarata intenzione di Di Maio e Salvini di non cambiarla, fino a prova contraria. In caso di sforamento del deficit, o di una crescita molto più bassa rispetto a quella indicata del governo, potrebbero essere tagliati i fondi destinati al «reddito».

QUESTO INTRICATO GIOCO politico e contabile, insieme alla scarsa definizione di un progetto altamente complesso, lascia spazio a attacchi pretestuosi lontani dal merito della questione: il reddito di precarietà in gestazione è finalizzato alla creazione di un governo dei lavoratori poveri che rischia di essere ancora più sanzionatorio di quello tedesco. Per l’opposizione neoliberista, a una misura liberista, non sembra un problema politico. Dovrebbe esserlo per tutti gli altri.