«Questa è una vittoria di tutti, di tutto il paese, di tutti gli italiani che vogliono cambiare. Al di là dei colori politici e delle appartenenze partitiche. Una vittoria del popolo», dice Luigi Di Maio da Montecitorio festeggiando la prevalenza del sì al referendum costituzionale. Il ministro degli esteri parla, cosa insolita, tenendo d’occhio gli appunti. Si prende il pulpito mentre dai vertici del M5S arriva l’indicazione ai candidati di non parlare coi giornalisti prima che si conoscano i dati definitivi delle regionali. È una maniera, l’ennesima dopo questa campagna elettorale sbilenca e tutta proiettata sul referendum invece che sui territori, di rimuovere la questione spinosa del voto alle amministrative.

Per il reggente Vito Crimi il M5S è adesso più che mai il «motore del cambiamento». Di Maio fa di più: si descrive come il traghettatore di un popolo unito e lanciato verso il futuro. Rivendica il ruolo dei 5 Stelle come soggetto trainante delle riforme costituzionali (e rilancia sul taglio degli stipendi dei parlamentari), proietta i suoi verso la nuova fase, all’insegna di un profilo di governo che fornisca garanzie istituzionali e mantenga una facciata anti-casta dentro un format moderato. Va anche detto che l’ex «capo politico» non riesce a essere del tutto ecumenico quando associa le sorti del referendum a quelle del M5S oltre che sue personali: «La sensazione in questi giorni è stata che qualcuno sperasse in una vittoria del No perché in fondo sperava in una nostra e in una mia sconfitta».

Di Maio sapeva che una sconfitta del centrosinistra in Puglia e Toscana avrebbe incrinato gli equilibri di governo e dunque imbrigliato i giochi, visto che lui stesso ormai difficilmente trova una collocazione tattica che prescinda anche dal posizionamento ministeriale. Questa è la forza ma anche la debolezza di Di Maio. Da questo punto di vista, non è bastato il presunto tocco magico di Alessandro Di Battista, che con una scelta di tempi degna di un thriller si era presentato sul palco del M5S pugliese, proprio nelle ore in cui sembrava che pochissimi voti dividevano Emiliano da Fitto. Per le strane traiettorie della politica, dunque, la vittoria del centrosinistra in Puglia è una sconfitta personale di Di Battista e dell’ala che vorrebbe che il M5S si sganciasse dalla maggioranza di governo.

Di Maio approfitterà di questa difficoltà dell’ex deputato romano per arrivare a breve a degli Stati generali che scelgano una leadership collegiale che rappresenti le diverse anime e tenga unito il M5S. Conta sul fatto che finora quando si è trattato di articolare mediazioni e trovare sintesi ha sempre avuto più filo da tessere dei suoi colleghi, ma non è escluso che cerchi di stringere legami soprattutto coi parlamentari che spingono per una riforma organizzativa in senso tradizionale (dunque contro le pressioni di Davide Casaleggio). La missione è arrivare alla fine legislatura, e poi grazie alla riforma costituzionale governare con più facilità un gruppo parlamentare che si augura consistente e relativamente di peso ma caratterizzato da numeri assoluti più e ridotti, dunque maggiormente controllabile rispetto ad oggi.

Resta da sciogliere il nodo delle amministrative, per evitare i salti nel vuoto delle ultime tornate. «L’ho sempre detto – riflette Di Maio – Già da questa volta potevano essere organizzate diversamente e anche per il Movimento 5 Stelle, con un’altra strategia». È di tutt’altro avviso l’europarlamentare Ignazio Corrao, considerato vicino a Di Battista e da tempo in dissenso con la maggioranza del gruppo a Bruxelles. Corrao non ci sta a nascondere la sconfitta delle amministrative con la vittoria al referendum e punta il dito proprio contro il gioco di prestigio di Di Maio: «Bisogna avere la maturità – dice Corrao – di dirci che il Sì di oggi alla riforma è lontano anni luce da poter essere considerato un voto a favore del M5S o di chi lo gestisce».