La scelta dei quattro senatori ribelli del Movimento 5 Stelle è appesa ad un’ultima mossa, al maxiemendamento al decreto sicurezza con il quale il governo dovrebbe recepire le modifiche proposte in commissione. Paola Nugnes, Gregorio De Falco, Matteo Mantero e Elena Fattori non si fanno illusioni e non demordono. Tengono la posizione e dicono senza mezzi termini che la loro ostinazione, sotto sotto, è condivisa anche da altri parlamentari che non vogliono esporsi ma si trovano in sofferenza. Ecco perché nel M5S si torna a parlare di espulsioni. Prima che si decidesse di rinviare tutto a questa mattina, Luigi Di Maio era stato molto duro: «Una serie di dichiarazioni di questi giorni ha fatto intendere che parlamentari della maggioranza, pochissimi, erano pronti a votare emendamenti dell’opposizione a voto segreto – ha spiegato il vicepremier grillino – Il consiglio dei ministri ha votato quel decreto, il parlamento lo ha modificato al senato in commissione. Adesso, se ci sono opinioni contrastanti nella maggioranza, è giusto che il governo faccia una ricognizione della fiducia».

Se i quattro, come pare, non dovessero votare il decreto, magari uscendo dall’aula e dunque salvando le sorti della maggioranza a Palazzo Madama, si creerebbe un precedente. Per questo Di Maio invocherebbe comunque le procedure interne. Lo stesso dice Davide Casaleggio, che ieri si è visto proprio al senato. «Non mi sto occupando di questo tema – dice – Comunque sarà il collegio dei probiviri a definire questa decisione». Si era espresso uno degli uomini molto vicini a Di Maio, il sottosegretario agli affari regionali Stefano Buffagni. Che aveva puntato uno dei grillini critici più temuti dai vertici: «Se il senatore M5S Gregorio De Falco voterà contro il decreto sicurezza si assumerà le sue responsabilità», aveva detto. Che poi senza tanti complimenti aveva invitato l’ex comandante di marina a dimettersi: «Se non si ritrova nella maggioranza, sono certo che tornerà a fare il suo lavoro». La posta in palio è il rispetto di una delle norme fissate dal regolamento del M5S, ribadite dagli statuti parlamentari e rinforzate con il contratto di governo: non si mette in discussione il volere della maggioranza e non si minaccia l’esistenza dell’esecutivo. Quella norma serve a Di Maio a tenere le redini della baracca e a far passare le norme più controverse. «Se un genio si sente più illuminato degli altri e si comporta da solista, evidentemente non riesce a far parte di una comunità che sta affrontando un percorso complicato», dice Buffagni. De Falco non si lascia intimorire: «Non voglio scendere a quei livelli. E non so se il governo può cadere su quel decreto».

La questione della fedeltà dei gruppi parlamentari all’esecutivo e al contratto di governo non è una novità assoluta. Era stata sollevata, Costituzione alla mano, dalla senatrice Elena Fattori. Si era alla prima assemblea dei gruppi parlamentari, sette mesi fa, e Fattori aveva chiesto che la libera attività degli eletti non fosse vincolata dagli accordi di maggioranza. Anche adesso insiste su questo punto e insiste sul tema, un classico delle argomentazioni che precedono la rottura, della mutazione genetica del M5S: «Non dobbiamo blindarci, altrimenti ci facciamo male da soli. Il M5S non è fatto dai suoi leader, ma dal suo popolo». Paola Nugnes come i suoi colleghi uscirà dall’aula per il probabile voto di fiducia: «Su questo provvedimento di matrice leghista non posso essere d’accordo perché ho conoscenza delle conseguenze sul territorio. Non dovrebbe votarlo neanche la Lega perché non arriva ai risultati che si prefigge: crea più irregolari».