«Credo che ora il senso di responsabilità nei confronti del paese ci obblighi tutti, nessuno escluso, a sotterrare l’ascia di guerra». In due paginate del quotidiano La Repubblica Luigi Di Maio dice poche cose all’indirizzo del Pd: una vaga offerta di pace più quello che passa per un complimento al reggente Martina e per la verità, semplicemente, non è il tradizionale insulto dei tempi di «Pdmenoelle»: «È una persona con cui si può parlare e spero che il Pd si sieda al tavolo», dice il leader 5stelle. Che poi aggiunge una concessione: «Lega e Pd non devono sentirsi sullo stesso piano». Senza però rivelarci quale delle due forze è l’interlocutore preferibile.

NON È MOLTO, ANZI è davvero poco. Ma abbastanza per riaccendere le polveri nel Pd. La giornata politica diventa la saga della finzione. Il fronte antirenziano finge di leggere a un’offerta di dialogo. Così Dario Franceschini: «Di fronte alle novità politica dell’intervista di Di Maio serve riflettere e tenere comunque unito il Pd nella risposta. L’opposto di quanto sta accadendo: rispondiamo affrettatamente e ci dividiamo tra noi. Fermiamoci e ricominciamo».

Quando la proposta diventa un tweet gli si scatenano contro i navigatori dem . «Nessuno attribuisce alcuna credibilità alle parole del leader M5s. I nostri elettori hanno le idee chiare», lo sfotte il renziano Michele Anzaldi. Di «patetiche giravolte di Di Maio» parla Andrea Marcucci, di «appelli a vuoto» Matteo Richetti, impegnato ieri a Roma in una Leopolda in tono minore, immaginata come lancio di una candidatura ad un congresso che con ogni probabilità non sarà convocato.

MA FRANCESCHINI, sbeffeggiato dai social, nel gruppo dirigente è molto meno isolato. Dall’assemblea «Sinistra anno zero», organizzata dalla minoranza Pd a Roma, anche Andrea Orlando ripete la sua contrarietà all’«arrocco» renziano: dal pentastellato non arriva «nessuna novità», ammette, ma «dobbiamo incontrare tutti».

NEL PD È CHIARO A TUTTI, minoranze comprese, che quella di Di Maio è una finta apertura, probabilmente ad uso della trattativa, quella vera, che l’aspirante premier conduce sul tavolo con la Lega per la partita del governo.

Ma la recita del «sì al dialogo» serve a preparare l’assalto alla linea renziana detta dell’«Aventino», per un secondo momento: se mai dovesse arrivare una proposta di governo «dei responsabili».
IL PROSSIMO ATTO della guerriglia interna sarà l’assemblea dei gruppi parlamentari, martedì prossimo. La delegazione salita al Colle (Martina, Delrio, Marcucci e Orfini) ha già deciso che il Pd non andrà all’incontro proposto dai 5 stelle, che del resto continua a non avere un ordine del giorno. La linea resterà quella. Ma la riunione sarà l’occasione di marcare le diverse posizioni.

LA VERA POSTA IN GIOCO nel Pd non è il governo del paese – nessuno ma proprio nessuno crede a un’ipotesi di maggioranza M5S-Pd, neanche le minoranze – ma il governo del partito. Che si giocherà all’assemblea nazionale del 21 aprile.

IN MEZZO AI DUE schieramenti infatti resta il «reggente» Maurizio Martina. Tentando di non essere stritolato. Ieri si è letteralmente fatto in due presentandosi prima all’assemblea del renziano Matteo Richetti poi a quella di «Sinistra Anno Zero» per stringere la mano a Orlando e Cuperlo.

Il reggente si barcamena fra maggioranza e minoranza. A proposito di Di Maio cerca di non scontentare nessuno: «Cambia il tono e questo è un passo avanti ma le ambiguità politiche restano», dice. Orlando applaude. I renziani no: «Martina resta ambiguo perché cerca i voti di tutti», spiega un dirigente. Da questa parte la sola presenza al convegno della minoranza suscita disappunto.
IN VISTA DELL’ASSEMBLEA nazionale gli ultras dell’ex segretario sono tentati di scaricare il reggente a favore di un candidato più «affidabile». Ma quale? Richetti non convince, Delrio ha detto no, Guerini idem. Ma anche a prescindere dal nome, l’operazione è ardita: presenta il vantaggio di eleggere un renziano doc, visti i numeri. E nel caso di precipitazione al voto le liste sarebbero nelle mani «amiche» del presidente Orfini (in caso di indizione del congresso tutte le altre carica decadono). Ma c’è anche uno svantaggio, e grave: significherebbe scaraventare il Pd nella guerra civile.

PER QUESTO LA MINORANZA orlandiana, che per l’immediato non ha un nome competitivo, fa muro intorno a Martina, per il quale non stravede: «Non daremo a nessuno l’alibi per eleggere a segretario un servo sciocco di Renzi», spiega un orlandiano.

L’ULTIMA FINZIONE della giornata è quella di Di Maio. Dice di vedere nel Pd un qualche tipo di accoglienza delle sue parole: «Registro come un passo in avanti la dichiarazione del segretario Martina». Non è così, ma è ancora presto per ammettere il fallimento del dialogo con l’ex Pdmenoelle.