È una «porcheria», le regole sono state «annacquate», vanno fermate «in tutti i modi» entro il 10 agosto «con un ricorso al Tar» e un «decreto ad hoc». A più di un mese dalla scadenza dei termini per il ricorso al Tar sulle linee guida promulgate il 18 aprile scorso dall’autorità garante delle comunicazioni (Agcom) sul divieto di pubblicità del gioco d’azzardo previsto dal «Decreto dignità», ieri Luigi Di Maio si è scagliato contro l’Authority perché non ha rispettato la lettera della legge. Per questa ragione ha chiesto le dimissioni del presidente Angelo Cardani e dei vertici dell’Agcom «per dare un segnale». Peccato che siano scaduti il 24 luglio scorso. «Stiamo in prorogatio e in attesa delle nuove nomine che tardano ad arrivare per l’inazione del parlamento e del governo» ha replicato Cardani che, in una nota molto dura, ha attaccato Di Maio perché «insulta» un «organismo indipendente innanzitutto dal potere politico».

AL NETTO della reazione improvvisata del vicepremier e doppio ministro del lavoro e sviluppo, sembra che nell’agenda già molto affollata del governo ci sarà un nuovo decreto che applichi, contro il regolamento dell’Agcom approvato tre mesi fa nella distrazione del governo e dei Cinque Stelle, quanto aveva già stabilito il 7 agosto dell’anno scorso nel «Decreto dignità». Tutto questo dovrebbe avvenire entro dieci giorni. I Cinque Stelle avevano promesso che il divieto sarebbe entrato definitivamente in vigore entro il 10 agosto . A questo punto si vedrà con quali conseguenze.

RESTA IL FATTO che, secondo Cardani, il governo non si è confrontato nel merito né ha collaborato all’interpretazione dei contenuti della legge dal dicembre 2018, quando sono iniziate le audizioni. Né ha sentito il bisogno di fare ricorso prima al Tar, entro i sessanta giorni dall’approvazione delle linee guida previsti in questi casi. Un comportamento strano per i Cinque Stelle che, fino all’anno scorso, hanno mostrato di tenere molto a questo provvedimento. Poi sembra che lo abbiano abbandonato al suo destino, mentre i lavori dell’Agcom richiesti dallo stesso governo andavano avanti. In questa vicenda surreale può avere pesato anche la partita sulle nomine. Ieri è trapelata la notizia che i Cinque Stelle e Lega sarebbero in procinto di raggiungere un’intesa sull’Agcom, mentre sarebbe in corso un confronto con l’opposizione. Di Maio ha annunciato su Facebook di volere cambiare i vertici «a settembre».

IL PROBLEMA si trova nella delibera 132 dove l’Agcom distingue tra informazione e pubblicità. Dopo avere ascoltato i maggiori soggetti del settore (da Confindustria Radio Televisioni a Sistema gioco Italia o Eurobet), l’authority ha escluso dal divieto «le comunicazioni con finalità informativa, descrittiva ed identificativa dell’offerta legale di gioco» perché «non hanno natura promozionale e risultano essenziali a rendere distinguibile tale attività rispetto all’offerta di gioco illegale». Tra l’altro si parla di: siti internet dei concessionari del gioco a distanza, quelli che comparano offerte commerciali e i materiali informativi posti nei luoghi fisici dove si gioca.

LA DECISIONE ha sollevato la protesta delle associazioni del terzo settore che sostengono la lotta contro la «ludopatia». L’Agcom avrebbe favorito un’intepretazione sbilanciata sul principio della concorrenza, lascia spazio al marketing, è poco sensibile alle ragioni sociali della prevenzione dalla dipendenza. Cardani ha sottolineato l’impegno dell’Agcom nel contrasto della «ludopatia», ma ha anche evidenziato «difficoltà di coordinamento che impediscono una piena applicazione del divieto di pubblicità nel settore». Insomma, l’articolo 9 del «Decreto dignità» presentava dei problemi che andavano approfonditi, e risolti, per raggiungere l’obiettivo. Non è avvenuto.

DALLA DELIBERA dell’Agcom emerge anche una contraddizione maggiore. Da più parti è stato osservato che, da un lato, il governo vieta la pubblicità, dall’altro lato considera legittima il gioco a pagamento, mantenendo le concessioni. Per uscire dal circolo vizioso avrebbe dovuto intervenire su questo sistema. Non lo ha fatto.