È una coalizione in formazione o l’incontro quasi casuale di rivali tenuti faticosamente insieme da un transitorio interesse comune? All’osso il quesito che la disfatta umbra pone alla maggioranza è tutto qui ed è su questo spartiacque che i generali dell’armata sconfitta si dividono per tutto il giorno, con frecciate e minacce che smentiscono la certezza ostentata da Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, su questo e solo su questo concordi: «Il governo sarà giudicato nelle elezioni del 2023».

IL PREMIER CONTE sa che se all’orizzonte non c’è almeno la probabilità di una vera e longeva alleanza politica il suo governo è appeso a un filo sottilissimo e il suo ruolo politico diventa inesistente. Sa anche che la rissa che nelle ultime due settimane ha squassato governo e maggioranza, proprio alla vigilia del voto in Umbria, sarà del tutto incontrollabile se viene meno quell’orizzonte comune. Di buon mattino il premier parla al telefono con Di Maio e Nicola Zingaretti, ma dal primo non riceve le rassicurazioni richieste e il segretario del Pd, pur condividendo gli obiettivi unitari di Conte, è decisamente più bellicoso, al punto da costituire a propria volta un’ulteriore variabile potenzialmente esplosiva. Con l’arcinemico Matteo Renzi, il capo del governo nemmeno prova a parlare. Sarebbe inutile. Di quella coalizione Renzi non vuol fare parte e quanto a rissosità va subito all’attacco bersagliando il comizio unitario di Narni: «E’ stato un errore, io non lo avrei fatto».

LUIGI DI MAIO, il massacrato numero uno, ha dichiarato morta la nascitura coalizione già nella notte, dopo i primi risultati. In giornata rincara: «Era un esperimento. Non ha funzionato. Il patto Pd-M5S è una strada impraticabile». Neppure la richiesta di porre fine alle ostilità sulla manovra è accolta: «Il governo va migliorato e innovato. Alcuni interventi sulle entrate vanno rivisti». Poi ricompare a sorpresa il contratto, un accordo scritto e firmato sulle cose da fare e su quelle da evitare. Il contrario esatto di un’alleanza politica. Precisamente quel che Conte e Zingaretti vogliono evitare.

Il premier prova a spegnere l’incendio con il suo tipico estintore: «Se un esperimento non è andato bene ci si può fermare a valutarlo. Ci sono altre competizioni regionali che ci aspettano». Un colpo a Renzi: «Non mi piacciono i tatticismi. Rifarei la foto di Narni cento volte». Infine un monito: «E’ un test da non trascurare ma che non può incidere sul governo. Però serve più spirito di squadra».

IL PACATO MONITO a Zingaretti non può bastare. Ai piani alti del Nazareno il ragionamento è secco, corroborato da un risultato elettorale tutt’altro che disastroso per il Pd: «Non siamo noi che temiamo le elezioni ma Renzi e Di Maio. Adesso basta». Il segretario è duro: «Una maggioranza non può esistere per paura di Salvini. L’alleanza ha senso se vive nel comune sentire di tutti quelli che ne fanno parte. Altrimenti è inutile e sarà meglio trarne le conseguenze». Tutti a casa e tutti al voto, perché il miraggio di un terzo governo, fantasia che pure circola ampiamente nei palazzi della politica, per il Colle è fuori discussione.

Quella di Zingaretti, irritato all’estremo per le uscite dinamitarde di Di Maio, è una minaccia esplicita rivolta al pentastellato ma anche al guastatore Renzi. A confermare che il segretario del Pd fa sul serio arriva anche la testa d’uovo Goffredo Bettini, «padre nobile» dell’attuale maggioranza: «O si cambia registro o saranno inevitabili le elezioni». Sono toni che il Pd intenderebbe usare anche nel vertice di maggioranza chiesto per oggi e che però non è ancora stato confermato. L’obiettivo sarebbe mettere tutti i riottosi alleati di fronte a un vero e proprio aut aut, agitando lo spettro della fine della legislatura subito dopo il varo della legge di bilancio, in gennaio.

MA ZINGARETTI ha in mente anche la carota. Una proposta forte da inserire nella legge di bilancio per rilanciare, con il consenso di tutti, la coalizione e qualificare la manovra che sin qui ha mostrato ben poca anima. Bocche cucite ma potrebbe trattarsi di un allargamento del cuneo fiscale alle aziende, che schiuderebbe almeno uno spiraglio per il salario minimo. Comunque vada il vertice, però, quello del governo sarà d’ora in poi un percorso di guerra.