«Mister Di Maio goes to Washington»: la storia dell’uomo comune in mezzo agli squali della politica messa in scena alla fine degli Trenta da Frank Capra sembra rivivere nel viaggio oltreoceano di Luigi Di Maio. Solo che il candidato premier del Movimento 5 Stelle non ha l’aria di uno che vuole rivendicare la sua origine. Al contrario, sembra voler sciacquare i panni nel fiume Potomac per acquisire la patente di Uomo di Stato. E spiegare che la sua non è affatto una forza «anti-sistema». «Voglio raccontare agli americani la verità sul primo movimento europeo dopo la crisi dei partiti tradizionali», dice il vicepresidente della camera.

Questa volta è diverso. L’agenda di Di Maio trabocca di appuntamenti ufficiali. I profili dei suoi interlocutori rappresentano bene l’anima ondivaga del M5S. «Il mio obiettivo è stabilire un contatto diretto e duraturo con l’amministrazione Usa: per questo inizio col Dipartimento di stato», spiega lui, annunciando il suo incontro con Conrad Tribble, viceassistente del segretario di stato per l’Europa. «Gli Usa sono uno dei nostri principali alleati e la Russia un nostro interlocutore storico», dice Di Maio a chi gli chiede conto delle prese di posizione pro-Putin. Poi illustra il principio assoluto, quasi tautologico, sulla natura genuina (e non pilotata dall’estero) del suo partito: « Il M5S è una garanzia – spiega – Se il fatto che siamo manovrati avesse un minimo di fondamento si sarebbe già venuto a sapere». D’altro canto, nessuno dei numerosi transfughi del M5S ha mai prodotto prove circa i retroscena del grillismo, fascinazione putinista compresa.
Di Maio è consapevole di avere più di una spiegazione da dare agli statunitensi. Il M5S non ha mai fatto mistero di sostenere il regime siriano di Assad, considerato una vittima di manovre a stelle e strisce per destabilizzare l’area. Sta a lui rendere conto del mix tra sovranismo e pacifismo, tra fascinazione per gli uomini forti e sventolìo di bandiere arcobaleno. Ad esempio, nel febbraio scorso è potuto succedere che il 5 Stelle membro della commissione esteri della Camera Manlio Di Stefano nel giro di due giorni saltasse indisturbato da un incontro a Livorno con platee «anti-imperialiste» a un appuntamento a Massa organizzato da un circolo vicino all’estrema destra.

Il modo in cui il M5S è stato recepito nelle sinistre statunitensi assomiglia al dibattito italiano degli anni scorsi. Micah White, tra i fondatori di Occupy, si entusiasmò moltissimo. Al punto che venne invitato a parlare al Vaffa-Day del 2013 a Genova. Qui decise di sbilanciarsi: annunciò che il M5S era addirittura «il movimento più importante del mondo». Sono molto più critici i marxisti hipster della rivista Jacobin, che hanno pubblicato un’analisi secondo la quale il «M5S è una miscela incoerente di senso comune, invocazioni populiste e slogan di destra e di sinistra». Il Wall Street Journal ha salutato l’elezione di Di Maio sostenendo che i grillini avevano scelto un «moderato».

Dall’altro lato dell’Oceano, presso i grillini, l’elezione di Trump aveva suscitato malcelati entusiasmi. Chiudendo tutti e due gli occhi sulle sue posizioni anti-ecologiste e ultra-liberiste, nel M5S avevano visto in Trump e nel suo isolazionismo in politica estera una sponda. Per non parlare dell’incontro organizzato da Di Stefano e Alessandro Di Battista alla camera: «Se non fosse Nato». Adesso Mister Di Maio tira il freno a mano: «Il nostro obiettivo è restare nella Nato ma abbiamo perplessità sulla spesa al 2% del Pil in armamenti». Poi invoca «progetti per rafforzare l’intelligence, investimenti in innovazione che possano anche essere partnership esclusive con gli Usa». E le missioni militari? «Non siamo pregiudizialmente contrari, specialmente per quelle a guida italiana che hanno reso lustro alle nostre truppe», anche se in Afghanistan qualcosa non quadra: «Spendiamo un sacco di soldi». Parole più che concilianti sulle basi americane in Italia: «Qualsiasi messa in discussione deve essere legata a un dialogo con gli Stati Uniti».

Sull’economia, Di Maio cita i finanziamenti pubblici all’innovazione dell’economista Marianna Mazzuccato. Ma per non turbare troppo i suoi ospiti sviluppa soltanto a metà il ragionamento. Per Di Maio dietro alla Silicon Valley ci sono le montagne di quattrini pubblici dello «stato imprenditore». Però nella sua versione viene a mancare l’altro corno del problema (e del potenziale conflitto): la nascita, a spese dei soldi dei contribuenti, dei monopoli di Google, Apple e Facebook, a detta di alcuni i più potenti che la storia dell’economia di mercato ricordi. D’altronde, per la politica fiscale di Trump Di Maio ha parole di miele: «Stanno facendo una riforma molto interessante».