«E adesso, dopo aver lottato per conquistare il reddito di cittadinanza, il superamento della legge Fornero con Quota 100, scongiurato tagli alla sanità dovremmo tornare indietro?», la vicepresidente del senato Paola Taverna reagisce alla lettera di Tria all’Europa.

IL SUO SFOGO dice molto della confusione che regna nel Movimento 5 Stelle. Non siamo ancora alla sindrome da formicaio impazzito, e neanche al «si salvi chi può», ma ieri i parlamentari hanno provato a fare il punto e individuare una strategia che per la prima volta si accorgono non provenire dai vertici.

Perché è difficile capire che cosa ha in mente Di Maio per risalire la china, col crollo dei consensi e mezzo M5S che non è cascato nella trappola del voto online convocato appositamente per rinnovargli la fiducia dicendo esplicitamente che il problema non si risolve col bagno purificatore nella piattaforma Rousseau.
«Bisognava partire prima e costruire un’organizzazione più partecipata» dice ad esempio Luigi Gallo, deputato considerato vicino a Roberto Fico.

CHE IL «CAPO POLITICO» sia in difficoltà è evidente. I suoi problemi hanno a che fare con i deficit strutturali del M5S quali la debolezza sui territori, la difficoltà di creare una classe dirigente e quadri intermedi, l’impossibilità di mantenere posizioni ondivaghe una volta al governo.

Da qui il tormentone sulla riorganizzazione del M5S, che al di là delle diverse soluzioni specifiche proposte (responsabili territoriali, responsabili tematici, una segreteria politica ristretta che garantisca un minimo di collegialità) non può eludere i nodi della forma-partito e quelli del superamento del vincolo di due mandati elettivi.

NON SI TRATTA DI DISCORSI inediti, solo che tutto si fa più urgente perché l’esigenza di una struttura politica si somma, e spesso si intreccia, alle difficoltà di questa fase, al rapporto con la Lega e all’incertezza del quadro politico.

Per questo si allarga il sospetto che Di Maio sia incapace di un piano B, o almeno che non abbia una strategia di medio periodo per uscire dall’impasse. Le parole con le quali ha salutato il contestato referendum online a suo favore sono apparse a molti dei suoi particolarmente inadeguate: sentire uno che ha appena perso sei milioni di voti dire «Non mi monto la testa» è paradossale.

Così come non ha giovato alla sua autorevolezza il fatto che Davide Casaleggio sia dovuto uscire dall’ombra e che Beppe Grillo abbia dovuto scongelare il suo impegno politico diretto per correre in soccorso ad un leader che rischiava di schiantarsi.

UN ANNO FA Luigi Di Maio chiamava la piazza grillina in occasione della festa della repubblica. La manifestazione doveva servire a chiedere l’impeachment al presidente Sergio Mattarella, colpevole di mettersi di traverso di fronte alla composizione della squadra dei ministri dell’esecutivo giallo-verde.
Finì che il governo vide la luce e l’adunata romana si trasformò in una festa. Di Maio pronunciò le parole che avrebbero inaugurato la svolta pragmatica e istituzionale da lui patrocinata: «Adesso basta fischiare, lo Stato siamo noi!».

Dodici mesi dopo, e dopo la batosta elettorale che ha sferrato un duro colpo al grillismo di governo, è difficile dire che il M5S tornerà quello delle origini, qualsiasi immagine del passato recente si abbia a mente. Di Mao sa bene che il presidente che un anno fa voleva sotto accusa adesso ha in mano una parte del suo destino e di quello del M5S.

PERCHÉ SOLO MATTARELLA può porre un freno all’arrembaggio della Lega. E perché, se la situazione dovesse precipitare e il patto di governo spezzarsi di fronte alla tensione crescente tra le due forze di maggioranza, il pallino della legislatura tornerebbe al Quirinale.

Ecco perché il capo politico grillino ammette che gli attacchi a Mattarella di dodici mesi fa furono esagerati. Nelle prossime settimane dovrà dimostrare di non essere un capo legato ad una stagione che rischia di finire.