La copertina del libro di Chiara Fortebraccio Di Domenico (un dipinto di Luigi Ambrosetti), raffigura un orso e un lupo. Considerato però che Poche semplici regole (Stampa alternativa, pp. 288, euro 16), romanzo d’esordio della scrittrice pesarese, racconta la storia di una madre e di una figlia, non è azzardato vederci due esemplari femminili. Se poi la madre in questione si è sempre definita una lupa, specie per rispondere a chi le ha dato in maniera spregiativa della cagna, l’equazione su chi sia l’orsa si risolve facilmente.
Proprio come ci immaginiamo gli orsi, di una ferocia flemmatica, Gloria, che si chiama così per la canzone di Patty Smith e non quella di Umberto Tozzi, si muove alla ricerca delle proprie origini. Lo fa in una Roma sommossa dalla «schiuma», come l’autrice definisce i gruppi vandalici che non sono neanche «fasci», sono «anonimi, sono chiunque» che imperversano nella capitale, specialmente nel quartiere dove la giovane donna va a vivere.

GLORIA HA SCELTO il Pigneto, perché un indizio fondamentale della sua caccia al tesoro, intorno alla quale si dipana il romanzo, rimanda a quel punto di Roma Est, dove era approdata decenni prima sua madre, scappata di casa per cercare la realizzazione, o meglio per sfuggire a tutto ciò che l’avrebbe resa infelice: una vita normale. È Patrizia ad avere «poche semplici regole», ma sono ferree e rimandano tutte sostanzialmente a una: non avere nessun padrone.
Patrizia non l’ha imparata, perché tra i vari collettivi che frequentava ce n’era anche uno femminista: le lotte del ’77, anno in cui arriva nella capitale, sono piuttosto il caos primordiale da cui avrà origine la storia di sua figlia Gloria e il conflitto sociale che fa da contesto a tutto il romanzo.
Il libro di Chiara Fortebraccio Di Domenico parla infatti di rivoluzione, non a partire dalla storia di un ideale o di un movimento politico distante, come farebbero manuali e riviste specializzate, ne racconta la fine. Finisce tutto in questo romanzo d’esordio: i falò sulla spiaggia, l’inedia di Gloria, l’infelicità di sua nonna, finisce una delle vite di Patrizia.

SI ESTINGUE LA POSSIBILITÀ di credere che gli ideali esistano ancora. La perdita, però, corollario inesorabile di qualsiasi fine, non è raccontata come conseguenza inevitabile e dolorosa, al contrario essa è la vera meta. Un po’ per scongiurare il dolore della vita, imparare a perdere e ad abbandonare aiuta ad accettare l’assenza di chi ha deciso di andarsene, un po’ perché «si può essere liberi solo se si è leggeri».
Soprattutto, in questo romanzo che è un controcanto tra le voci di una madre e di sua figlia, nonché la ricerca di un padre sconosciuto, perdere significa sgomberare il campo all’esistenza, lasciare che la propria vita sia. Patrizia, nella sua esistenza dedita alla ricerca dell’entusiasmo e della bellezza, ha imparato che la conquista della libertà passa per l’abbandono: anche da madre, non lo dimentica.