«Paesaggio e umore sono raccolti in un silenzio irreale, in cui la malinconia ha un suono cosmico, l’accento di un Leopardi idealmente melico: che è l’immagine più pura della lirica digiacomiana», asserzione pasoliniana che ben rappresenta la forza poetica e narrativa di Salvatore Di Giacomo (Napoli 1860/1934). Essenza che si riscontra in «Mattinate napoletane» (Polidoro Editore, 2021) con la prefazione di Marco Perillo. Il libro, la cui prima edizione risale al 1886, è costituito da quindici racconti quasi tutti drammatici, in cui egli acquisisce la fama di narratore con la determinazione di descrivere l’indigenza e le sofferenze della realtà partenopea. Ciò si evince anche in «Lettere da una città dolente» (1909) del medico svedese Axel Munthe (1857/1949) o nel saggio «La miseria in Napoli »(1877) della giornalista inglese Jessie White Mario (1832/1906). Tuttavia, il suo fine è dissimile da quello degli autori sopra citati, perché nei racconti risalta la pietas: il suo è un ‘verismo sentimentale’ che caratterizzerà tutte le opere, dalla poesia alla drammaturgia. Dopo aver lasciato gli studi di Medicina per dedicarsi al giornalismo, nel 1879 comincia a collaborare col Corriere del Mattino, facendosi notare come autore di novelle che narrano Napoli con inequivocabile autenticità. Così ha inizio la carriera letteraria affiancata a quella di poeta, drammaturgo (Assunta Spina, ’O mese mariano, ’O voto, etc.) e saggista.

Tra le poesie musicate si menzionano: Era de maggio, Carulì, ’E spingule francese. Nei quindici racconti ambientati alla fine dell’Ottocento e che compongono «Mattinate napoletane», ci s’imbatte, per esempio, in Serafina accoltellata in strada per gelosia; in Carmela costretta a segregare il proprio bimbo nell’Albergo dei Poveri e mandare la figlioletta ad apprendere l’arte del cucire da una sarta; in una madre che assiste inerme alla morte del figlio, Ndreuccio, per una banale febbre; nelle anemiche che affollano dalle prime ore dell’alba il macello di Poggioreale. In tali racconti emerge con forza anche il carattere noir dello scrittore. «Erano questi racconti il suo orgoglio. No, Di Giacomo voleva essere un narratore come si deve. Tutt’al più un grande poeta. Ed essere riconosciuto solo come tale. Specialmente all’inizio della sua avventura di autore, quando fece di tutto per convincere gli altri di possedere una scrittura interessante» attesta nella prefazione Marco Perillo. Ciò che affiora dai racconti è una quotidianità fatta di tribolazioni e miseria. Il proposito dell’autore è denunciare la condizione umana e indurre chi legge a compenetrarsi nelle storie e nelle vite dei personaggi. È uno sguardo nei luoghi d’ombra, dove il ‘verismo sentimentale’ di Salvatore Di Giacomo s’è sporto così lontano, al punto di prendere su di sé le emozioni, i miasmi e il vociare dei personaggi, così intensi che ogni storia diviene autentica e cruda realtà. «Tu non sei stato mai a Napoli e non puoi sapere che siano questi vicoli di Borgo Loreto, topaie di marinari miserabili, vestiti di lana doppia, puzzolenti, neri come il carbone. Tutta la vita grama di questi lavoratori del mare s’agita ripullulando, in case buie, profonde, umide. Un tristo e schifoso spettacolo, poco lontano dall’azzurro, divino spettacolo del mare, innanzi al quale la mia mano freme sulla tavolozza», rivela egli stesso. «Mattinate napoletane» è una promenade addolorata e passionale in cui Di Giacomo immerge tutti nel dedalo di viuzze brulicanti di storie di vita quotidiana che svelano una Napoli dai compositi e miseri «mille culure».