Siete figli del popolo? Allora ai vostri figli evitate il liceo classico, che è di classe fin dal nome. Studieranno cose inutili al lavoro. Manderanno a memoria regole grammaticali astratte e liste interminabili di eccezioni che non incontreranno mai. Tradurranno, dal greco e dal latino, elogi degli antenati, appelli alla castità e allocuzioni alle truppe. Sapranno cos’è un chitone, riconosceranno al volo un chiasmo, ma ignoreranno scienze, lingue e informatica. Solo se Zeus li assisterà supereranno il test di ammissione a Medicina o a Ingegneria. Se siete figli del popolo, evitate ai vostri figli il liceo classico: lasciatelo ai figli di papà.

Più o meno così i detrattori del liceo classico aggiornano oggi banalità vecchie di secoli. Meneghello, alunno della scuola fascista, derideva un’istruzione classica fatta di «memorabili battute di guerrieri e filosofi, stimolanti trovate circa la natura del mondo, per esempio panta rei, e arguti ideali, a cominciare dal calò-cagazzò». Strindberg ricordava negli stessi termini le lezioni di greco e latino impartitegli quasi un secolo prima. Con i sostenitori della scuola utile contro la «perdita di tempo» dei classici aveva già a che fare Swift. E si potrebbe risalire molto più indietro. Chi critica oggi il liceo classico spesso finge che niente sia cambiato e preferisce la caricatura agli argomenti, sbandierando come novità pratiche didattiche da tempo assimilate. Di qui diagnosi poco fondate, terapie da imbonitori o prognosi da menagrami.

C’è chi ingigantisce dati incompleti su questo o quel test di ammissione e dichiara nocivo il liceo classico. C’è chi brandisce come una clava l’argomento stucchevole della scuola nata fascista. C’è addirittura chi si lagna perché «in latino non si impara nemmeno a dialogare» (e ci mancherebbe!). Anche proposte ragionevoli hanno preso la china della demagogia, e colpisce che, in certe requisitorie, convivano quietamente populismo grossolano e aziendalismo spinto.

A forza di descrizioni caricaturali e dati fumogeni, il rischio è che si proceda, magari in buona fede, a riforme liquidatorie. «Un ferro storto si raddrizza storcendolo dal lato opposto», diceva Lenin; ma non è questo il caso: il liceo classico – che non ha mai cessato di innovarsi e ha tutte le energie per farlo ancora – ha semmai bisogno di recuperare l’autonomia di sperimentazione che, pre-Gelmini, consentiva salutari addizioni di saperi scientifico-tecnici; ha bisogno – come ogni altra scuola – di vedere restituiti ai suoi docenti ruolo, tempo, spazio per migliorare un modello d’istruzione che ha dato risultati egregi, anche quale ascensore sociale; un modello che è unico al mondo e che il mondo ci invidia e ci copia. Noi ne diffidiamo, fuorviati da chi oppone studi scientifici e umanistici, pratica e grammatica, e via banalizzando.

Per fortuna c’è chi non si stanca di ripetere che non si educa, e non si riforma, con «la cultura monoteistica dell’aut aut» (I. Dionigi); che l’opposizione vera è tra «saperi difficili e saperi di formule» (G. Cambiano); e che la traduzione dal greco e dal latino non è «una penitenza, ma un divertimento problematico» (L. Canfora); e se a volte tale non è, tale va resa sempre, perché è un serissimo divertimento: un esercizio cognitivo che lascia impronte più durevoli di tanti soft skills – oggi si dice così – e che scienziati colti e lucidi come Guido Tonelli hanno di recente elogiato come viatico ideale sulla strada della ricerca più avanzata, in ogni campo.

È di classe, il liceo classico? Secondo numeri aggiornati, un terzo dei suoi iscritti viene dal ceto elevato, assai più che negli altri licei. Ma oltre la metà viene dalla classe media o addirittura medio-bassa. Quasi la metà viene da famiglie dove non c’è nemmeno una laurea. Ci si rifletta. L’esperienza insegna che nessuno di loro si pentirà dei suoi studi; le statistiche insegnano che tutti spiccheranno in ogni percorso universitario. Attenzione al malcelato elitismo di chi sconsiglia il liceo classico, o a quello di chi vorrebbe farne una riserva dove insegnare nozioni piene di futile appeal. Sono due modi diversi, ma convergenti, di restringere l’accesso a un capitale culturale inestimabile.