Se il Movimento 5 Stelle pareva attraversato da divergenze aspre, rappresentate dalla vistosa (e per certi versi clamorosa) stroncatura di Beppe Grillo nei confronti di Alessandro Di Battista di domenica scorsa, ora la spaccatura vera e propria riceve il marchio di garanzia. Il fatto saliente è avvenuto nella serata di martedì, quando, ospite il guardasigilli e capodelegazione dei 5S Alfonso Bonafede, tutta la delegazione ministeriale grillina più il reggente Vito Crimi e la vicepresidente del senato Paola Taverna hanno convocato Di Battista per cercare di giungere a un chiarimento.

L’ex deputato chiede che venga annunciato al più presto un congresso, che non si riparta da alleanze precostituite o da formule di governo ma da pochi temi forti che possano fare breccia nell’opinione pubblica e che costituiscano la discriminante di ogni futuro accordo di maggioranza. Infine, tema caro all’ex braccio destro di Davide Casaleggio Max Bugani, propone che non vi sia sovrapposizione tra incarichi istituzionali e ruoli di vertice nel M5S. Gli otto interlocutori hanno espresso una posizione comune. Hanno chiesto a Di Battista di fermare le esternazioni e di evitare di «spaccare il Movimento».

Da questo punto di vista, Di Battista pare non avere scampo: accettare il diktat che gli è stato consegnato. Ma non è così semplice. Già il fatto che si sia cercata una mediazione è indice di questioni concrete e non aggirabili, che impediscono che le sue richieste possano essere rimosse coi metodi spicci coi quali nel M5S finora si sono risolte situazioni analoghe. È quello che pensano i 5 Stelle che hanno smesso di seguire Di Maio, considerato a tutt’oggi manovratore del M5S «governista». Innanzitutto, Di Battista non è uno come gli altri e diversi volti noti del M5S e pezzi di quel che resta della base elettorale sarebbero disposti a seguirlo.

Dunque esiste il rischio concreto di una scissione. Inoltre, la proposta di costituire una direzione collegiale per aggirare gli stati generali del M5S e andare avanti col governo Conte difficilmente potrebbe essere approvata a grande maggioranza da una consultazione digitale, una volta che Di Battista dovesse decidersi a ostacolarla. E allora per forza di cose il nuovo «direttorio» (organismo che nella storia del M5S è già esistito ed è stato spazzato via dalle prime tensioni interne legate alle turbolenze della giunta Raggi) dovrebbe passare da un meccanismo decisionale più autorevole, come un’assemblea nazionale. Quindi il nodo: senza venire a patti con Di Battista è difficile immaginare che un evento del genere possa concludersi con formule ecumeniche e festeggiamenti per la sintonia ritrovata.

Così un esponente del M5S vicino a Di Battista sintetizza il dibattito interno a proposito di una possibile mediazione in vista di un congresso nazionale (o come si voglia chiamarlo): «Prima di tutto attivisti e iscritti devono decidere cosa si vuole fare, scegliere i temi e le battaglie dei prossimi anni. Poi si capisce come e con chi stare al governo. Solo dopo tutto questo si definiscono le caselle e di stabilisce quali persone devono occuparle». Ecco allora che, una volta fotografata la divergenza interna dalla riunione di via Arenula, il tema non è far venire Di Battista a più miti consigli. Il punto di caduta è la mediazione sul cosa e come debbano decidere gli stati generali grillini. Di Battista sa di essere in minoranza tra gli eletti in parlamento e di avere Di Maio e tutti i ministri contro (e non è poco). Ma sa anche che al momento gli attuali vertici del M5S (Grillo compreso) sono costretti a cercare con lui un punto di convergenza.