Assessore alle politiche giovanili nel comune di Molenbeek, Sarah Turin, è una giovane esponente dei Verdi. Fa parte di una giunta di centro-destra, dopo la vincita alle elezioni del 2012, dopo vent’anni di governo socialista. Incaricata della coesione sociale e del dialogo interculturale, ha ora il delicato compito di arginare le partenze dei giovani di origine arabo-musulmana verso la Siria.

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Sarag Turin

Possiamo parlare di una problematica di tipo intergenerazionale?

Io direi intergenerazionale per varie ragioni. Prima di tutto perché riguarda giovani adulti che vivono una situazione socio-economica molto difficile. Poi perché dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 abbiamo avuto una prima ondata di islamofobia, che ha prodotto un’immagine stigmatizzata dello straniero musulmano, anche quando ben integrato. Tutto ciò crea tensione e rende difficile la ricerca del proprio posto nella società.

Cosa spinge molti di questi giovani a partire per la Siria?

Le partenze verso la Siria, e le relative, drammatiche conseguenze, non sono altro che la punta dell’iceberg. Registriamo un diffuso sentimento di malessere, dovuto anche al peso di una storia di immigrazione fatta di discriminazioni. Parliamo di giovani che faticano a inserirsi in altri quartieri della città, dove i codici di comportamento non sono più gli stessi. Esiste a Molenbeek una dinamica sociale peculiare, alternativa rispetto al resto della città. Dovremmo forse andare nella direzione della valorizzazione di questa diversità, canalizzando la rabbia nel confronto e nel rispetto dell’altro.

Quali sono le ragioni di questa rabbia?

Certamente c’è anche una forte identificazione con i fenomeni d’ingiustizia verso la comunità d’appartenenza, vissuti come un fardello sociale da portare. Non dobbiamo dimenticare che le prime generazioni non hanno avuto il riconoscimento di ciò che di buono hanno saputo portare in seno alla società d’accoglienza.

Si parla di un problema di integrazione della comunità belgo-marocchina. È un problema reale?

Devo ammettere che non amo il termine integrazione. È una parola che userei solo quando si deve mettere in campo una politica d’accoglienza nel caso dei primi arrivi e non per una comunità composta in maggioranza da persone nate e cresciute in Belgio. In questo caso parlerei invece di inclusione e mi chiederei se la società concede le stesse possibilità a tutti, in egual modo. Bisogna poi sottolineare che Bruxelles è una città formata da diversi quartieri, ciascuno con una propria identità. In questo panorama Molenbeek ospita una forte diversità socio culturale che non emerge nella dimensione pubblica. Le tante comunità che l’abitano preferiscono vivere la propria vita sociale e culturale in altri luoghi della città. Nello spazio pubblico ad emergere è la comunità belgo-marocchina, sicuramente numericamente rilevante, culturalmente presente sul territorio e di conseguenza più visibile.

Quali sono allora a suo giudizio le buone parole da utilizzare quando parliamo di radicalizzazione, e perché il territorio di Molenbeek sembra esserne il cuore?

Anche qui, non voglio utilizzare il termine radicalizzazione. Parlerei piuttosto del fenomeno della partenza di questi ragazzi per la Siria. E poi ancora, c’è il fenomeno del terrorismo e delle filiere criminali che lo sostengono, che bisogna naturalmente combattere. La ragione per la quale molti dei giovani di Molenbeek son partiti è dovuta a una ingiustizia sociale legata a sua volta ad una complessità nella costruzione identitaria.

Cosa fare quindi per arginare i fenomeni d’ingiustizia sociale e un’escalation di violenza?

Per prima cosa bisogna screditare la retorica di queste filiere criminali, che reclutano giovani combattenti, arginarne l’azione e meglio sorvegliarle. Dobbiamo poi affidarci al lavoro di prevenzione: dare ai giovani gli strumenti per comprendere cosa succede in Siria, dare delle chiavi di lettura multiple per affrontare il discorso della propria identità, parlare della storia del mondo arabo e musulmano, parlare della storia dell’immigrazione a Bruxelles. Quindi, diversificare i punti di vista e soprattutto valorizzare le identità multiple.