Anche uno scalo all’aeroporto di Detroit dà il senso della storia recente della città. Dall’alto, l’ex capitale dell’industria automobilistica americana (che ha una superficie di 139 miglia quadrate) appare come un patchwork: vaste aree abbandonate, spesso riconquistate dalla sterpaglia come in un paesaggio post apocalittico descritto da Richard Matheson, si alternano a gruppetti di case; i luccicanti grattacieli del distretto finanziario, sulla riva del fiume che connette il sistema dei Grandi laghi alla Saint Lawrence Seaway, come una fortezza d’argento.
Anche l’aeroporto ha qualcosa che lo rende un fantasma: il terminal lunghissimo sembra nuovo smagliante, con una navetta sopraelevata bianca che va avanti e indietro, ma è praticamente deserto, i negozi quasi tutti sbarrati.

Grazie al declino delle manifatture e dell’industria da cui era derivato il soprannome Motor City, tra il 2000 e il 2010, Detroit ha visto l’esodo di circa il 25% dei suoi abitanti. Dal picco di 1.8 milioni nel boom anni ’50 oggi si sono passati a circa 700mila; dalla quinta città in grandezza degli Stati Uniti, Detroit è diventata la diciottesima. È uno svuotamento d’area metropolitana paragonabile solo a quello di New Orleans dopo Katrina, e che ha lasciato circa 80mila edifici vuoti (spesso decrepiti), problemi economici, sociali e urbanistici praticamente irrisolvibili, uno dei tassi di crimine più alti degli States e una popolazione di circa 20mila cani randagi.

Il 14 marzo 2013, contro il volere del sindaco di Detroit, il governatore repubblicano Rick Snyder aveva nominato un manager d’emergenza incaricato della ristrutturazione finanziaria della città e la cui autorità soprassedeva quella del municipio e del consiglio comunale, regolarmente eletti. Kevin Orr, il manager in questione, era stato parte del team legale nella bancarotta della Chrysler. Tre mesi dopo essere stata consegnata alle sue redini, il 18 luglio 2013, citando un debito di circa 18 miliardi di dollari, deficit annuali insanabili e il collasso dei servizi pubblici (il 40% dei lampioni non funzionanti, tempo di reazione della polizia a chiamate d’emergenza: un’ora.) Detroit dichiarava bancarotta.

Una notizia bomba, visto che si trattava della più grande bancarotta metropolitana della storia Usa, ma anche densa di significato simbolico. Storica roccaforte del movimento sindacale, la culla della Motown Records è infatti una città a vasta maggioranza afroamericana (82.7% secondo il censo del 2010, mentre solo il 13% della popolazione del Michigan è afroamerican); dal 1962 in poi ha eletto solo sindaci democratici. Dal punto di vista di un politico come Snyder (parte di una generazione di governatori repubblicani impegnati in una lotta contro la spesa pubblica e il sindacato), il fallimento di Detroit era una lezione esemplare.

Nemmeno un anno dopo l’annuncio della bancarotta, Detroit rischia di diventare un caso esemplare per ragioni completamente diverse. È dell’8 novembre scorso, infatti, la notizia che la Motor City, con enorme anticipo su un processo che avrebbe dovuto durare anni è uscita dal disastro. La sentenza, a sorpresa, è il frutto non di una soluzione imposta dal tribunale ma da mesi di patteggiamenti a trattative dietro alle quinte, risultati in un «grand bargain», un accordo da 816 milioni di dollari al centro del quale sta il Detroit Institute of Arts, il museo della città, considerato uno dei sei più importanti degli States, e nella cui collezione di oltre 60mila pezzi figurano Caravaggio Van Gogh, Bruegel, Tiziano, Picasso, Matisse… I tagli all’arte sono sempre in testa alle liste di qualsiasi ricetta per la crisi economica. Nel caso di Detroit, invece, è stata l’arte a salvare la città dalla catastrofe.

Fondato nel 1895 e oggi ospitato in un grosso edificio Beaux Arts, il Dia è da sempre di proprietà del municipio locale. È alle sue preziose collezioni che, dopo l’annuncio della bancarotta, hanno immediatamente guardato i creditori: vendere i quadri più di valore avrebbe sanato almeno in parte i debiti. Secondo una stima di Christie’s commissionata da Kevin Orr, e riportata il dicembre scorso sul Detroit Free Press, la messa all’asta di 2.773 pezzi importanti della collezione avrebbe totalizzato una cifra tra i 456.277.995 e gli 866.997.240 dollari (il celebre The Wedding Dance di Peter Bruegel il vecchio avrebbe totalizzato tra i 100 e i 200 milioni di dollari; un autoritratto di Van Gogh tra gli 80 e i 150…).

Sempre nel dicembre 2013, però, cominciava a farsi strada un’altra idea, sponsorizzata dal giudice incaricato della mediazione per risolvere la bancarotta, Gerald E. Rosen.
Coadiuvato da una squadra di giuristi provenienti da ogni parte d’America, il piano di Rosen era senza precedenti, almeno su questa scala. E partiva dall’idea di ingaggiare la collaborazione delle maggiori fondazioni che hanno legami con Detroit – Ford (la fabbrica di auto fondata nel 1936 ha le sue radici in Michigan), John S. e James L. Knight (proprietari di giornali, alcuni dei quali a Detroit), Kresge (la cui sede è nello stato), partendo proprio dal rischio che stava correndo il Museo.

I contributi di cui Rosen aveva bisogno erano altissimi e non era mai successo che un pool di fondazioni fosse intervenuta per resuscitare una città dalla bancarotta. Eppure, nel giro di qualche mese, la Ford si era impegnata per 125 milioni di dollari, la Kresge per 100 e la Knight per 30; altre nove fondazioni hanno promesso contributi minori, per un totale di 366 milioni di dollari.
Forte di quel successo, con pazientissime trattative, Rosen è riuscito a formulare le basi di un accordo che includeva non solo il governatore Rick Snyder e un parlamento controllato dai repubblicani, ma anche i sindacati della città. Dalla triangolazione è risultato che il Dia passerà dal controllo del municipio a quello di una fondazione indipendente, i capitali forniti dalle fondazioni, insieme a 350 milioni di dollari dello stato da stanziarsi nei prossimi vent’anni andranno, tra le altre cose, a garantire la solvibilità del fondo pensioni dei lavoratori pubblici. In cambio, i sindacati hanno accettato il 4% di riduzione dell’assegno mensile di pensione, e i creditori una percentuale ridotta di recupero del debito. Ma tutte le riduzioni sono molto inferiori a quelle prospettate il febbraio scorso in un piano iniziale per far uscire la città dalla bancarotta. Il «grand bargain» architettato da Rosen (e approvato dopo una presentazione di tre ore dal giudice federale Steven Rhodes), include anche un abbassamento del debito cittadino di 7 miliardi dollari e 1.7 miliardi da investire in servizi pubblici e riparazioni delle infrastrutture di Detroit.