Marciare per ribadire i propri diritti di essere, non umano, ma androide. Non c’è differenza tuttavia, perché una coscienza, qualunque essa sia, ha il diritto di essere riconosciuta come tale, persino una macchina antropomorfa concepita per essere schiava che diviene più umana di coloro che la hanno creata, maturando un’etica e dei sentimenti che nell’uomo del XXI secolo cominciano a dissolversi in una pericolosa discesa verso la barbarie dell’egocentrismo iperbolico, dell’egoismo e del disprezzo. E se l’essere umano perde ogni pietà, gongolando tronfio nella sua miseria e nel suo benessere, chiunque si svincoli da questo status abietto non può essere che un deviante. E non sono i devianti a mettere in moto l’evoluzione, a tutelare la specie, quanto questa si autodistrugge e isntupidisce nell’idiozia e nell’ira?

Si tratta di Detroit Become Human per Playstation 4, nuova opera di quel narratore, regista e inventore di videogiochi sempre necessari e stupefacenti, anche nella loro imperfezione, che è David Cage con i suoi Quantic Dreams, e il segmento della marcia non è che uno dei tanti momenti straordinari e variabili del suo gioco ambientato in un futuro quasi prossimo, un videogame così poco fantascientifico e invece umanista, una lunga allegoria sul presente deformato dall’odio. Percorriamo dunque la strada manifestando per la libertà, inizialmente in pochi, e mentre camminiamo altre decine di androidi si uniscono al nostro percorso liberatorio. Non si è mai visto nulla del genere in un videogioco che, come ha scritto Alessandra Contin, ci fa provare, almeno virtualmente, cosa significa essere vittime dell’apartheid. Ad un certo punto, inevitabilmente, arriverà la polizia minacciando di sparare e qui sta a noi decidere: avremo un atteggiamento pacifista o aggressivo? Già perché come in ogni “sogno quantico” di David Cage le scelte di chi gioca sono determinanti per l’evoluzione dell’intreccio narrativo in maniera drastica, tanto che varrebbe la pena giocare più volte il suo Detroit solo per esperire ogni possibile ramificazione del racconto. Chi scrive ha scelto una strada “gandhiana” e sebbene abbia provato a ricominciare da capo Detroit per provare cosa sarebbe accaduto decidendo per delle opzioni improntate verso la violenza (contro una violenza ancora più sanguinaria) non ci è riuscito. Questo perché Detroit tenta e, può riuscirci, di parlare all’essere umano che c’è in noi, di convincerlo a ritrattare i suoi scialbi e impietosi pensieri. E’ una finzione, una grande illusione, tuttavia mentre l’indifferenza beota verso il prossimo sta diventando una scelta politica esaltata dall’empie risate del potere e di chi lo supporta è importante e degna di lode l’esistenza di un videogame, in grado di raggiunge milioni di persone, illuminante le fondamenta che distinguono l’essere umano dall’essere bestia.

Criticato per alcuni ipotetici “buchi della sceneggiatura” da una critica videoludica, e ahimè oggi anche cinematografica, che necessita di un “tutorial” persino per capire una storia, ignora cosa significhi il meta-testo e presuppone di conoscere la fantascienza equivocando come tale l’opera di Cage che sfrutta il genere solo come pretesto per edificare la propria allegoria, Detroit propone una grande storia corale e tripartita. Giochiamo nei panni di tre personaggi “robotici”che non si dimenticano, mettendo in atto il sorgere della loro coscienza: la dolce e materna Kara, il poliziotto Connor e Markus, assistente domiciliare di un anziano e illuminato artista (uno degli unici umani davvero umani del gioco)interpretato da Lance Henriksen. Attraverso ognuno di loro vivremo segmenti agghiaccianti, lirici o disturbanti, pieni di dolore e speranza. Ci sono momenti che resteranno nella storia del videogioco, come quando una bimba torna a sorridere sulla giostra di un luna park abbandonato, quasi una scena di Freaks ripensata da Vittorio De Sica; il bacio notturno e la fuga nelle tenebre di due androidi omosessuali; la rinascita di Markus in un cimitero dove giacciono le membra di androidi difettosi; la redenzione improvvisa e disperata di un padre violento. E verso la fine c’è uno dei baci più belli e toccanti che si sia mai visto al cinema o nei videogame, dove comunque ci si bacia ancora troppo poco.

La giocabilità è la stessa, sebbene sia migliorata e più dinamica, di quella già implementata nei due precedenti lavori di Quantic Dreams, ovvero Heavy Rain e Detroit. Gestiamo dunque le parole, le reazioni, le azioni e le intenzioni dei personaggi durante un flusso ininterrotto di immagini che ha un andamento cinematografico. Non si tratta tuttavia di cinema interattivo, definizione stucchevole e comoda affibbiata alle opere di Cage, ma di videogame puro, perché in definitiva si interagisce premendo dei tasti e l’urgenza emotiva che ci coglie durante lo scorrere del tempo lo rende più complesso di tanti altri videogiochi d’azione. Può sembrare di partecipare ad un film osservando il montaggio e le sequenze che si susseguono senza sosta, ma è il film di una vita, laddove l’attore e noi che lo controlliamo mentre questo controlla le nostre emozioni, è inconsapevole di essere ripreso dall’occhio onnisciente di una macchina da presa divina.

Se ci si limita, cosa assai difficile in un gioco così emozionante e profondo, al gelido aspetto tecnico, Detroit è comunque meraviglioso da osservare, con una beltà estetica realizzata tramite un motore grafico abilmente sfruttato che rende superflue le speculazioni su una ventura generazione di console ancora più potenti e oltre l’ultra-definizione.

Esperienza soggettiva, che differisce in base a chi la vive, Detroit regala emozioni difformi e mai epidermiche, e se si riesce infine a salvare ogni personaggio si percepisce un senso di trionfo che sa di gloria, non quella rabbiosa e narcisistica della conquista, ma quella del bene e dell’empatia.

Seconda opera meravigliosa dell’anno, con God of War, di una Playstation Sony che sta vieppiù puntando verso esclusive uniche per contenuti e qualità artistica (e in futuro fioriranno probabili capolavori come The Last of Us 2 con il travolgente bacio saffico del suo nuovo trailer e l’indecifrabile e già sublime Death Stranding di Hideo Kojima), Detroit Become Human è un gioco da vivere senza i preconcetti edificati da anni di videogiochi e cinema più convenzionali, retti da racconti didascalici nei quali l’astuzia dello sceneggiatore si sostituisce alle sue emozioni, alla sua arte e alla sua etica.

Come tante opere elettroniche, sottovalutate proprio perché videogiochi dal pubblico e dalla critica più raffinata, l’ultimo racconto virtuale di Cage dovrebbe essere vissuto anche da chi non gioca regolarmente o non gioca affatto. Perché è grazie a opere come Detroit che persino coloro che ritengono il videogame un luogo sterile e solo commerciale dove non si fa altro che combattere e gareggiare, potrebbero cambiare idea. E scoprire così una giovane, ancora traballante, ma già feconda di intuizione e bellezza, forma d’arte.