«Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa, mentre il viaggiatore può non tornare affatto». Così, nel romanzo di Paul Bowles Il tè nel deserto, l’americano Port Moresby spiega all’amico George Tunner quale sia la differenza tra le due categorie. Insieme a Kit Moresby, Port e George compongono il trio cui Bowles fa vivere drammi e tragedie nel Sahara profondo. Già allora snobistica e insopportabile, questa affermazione è stata prima demolita dalla progressiva globalizzazione dell’industria del viaggio. Poi dal sempre più sterminato popolo costretto a lasciare la propria patria e a cercare approdo in terra straniera. Quel popolo lo racconta ogni anno «Detour», piccolo, resistente festival di cinema che domenica scorsa ha chiuso a Padova la sua settima edizione. Nel sottotitolo, «Detour» mette la parola ‘viaggio’. Ma i film in concorso e quelli delle sezioni parallele nulla c’entrano con i documentari del National, i reportage etnici, le cronache di moderni esploratori. Cuore del festival è per vocazione il popolo dei fuggitivi, dei migranti, degli esclusi. Le narrazioni trasformano le storie del singolo in metafore, in esempi, di realtà che riguardano migliaia, milioni, di individui. «Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa, mentre il viaggiatore può non tornare affatto».

I PROTAGONISTI

Provate a dirlo a Edith, operaia di una fabbrica di tessuti francese che ha deciso di delocalizzare la produzione a Tangeri; ai cercatori di zanne di mammut sulle terre infinite della Nuova Siberia; a Chen Liung, immigrato illegale in Giappone dalla provincia cinese dello Henan; alla coppia di italiani che hanno dovuto lasciare la Libia nel 1969, e a Mahmoud, che a Tripoli è nato venticinque anni fa e da lì vorrebbe soltanto scappare; al quindicenne Mara e al suo amico Hedus, che a bordo di una macchina rubata provano a illudersi di raggiungere Parigi da un paesino sperduto della Repubblica Ceca; al bambino giapponese che un mattino esce di casa, zaino scolastico in spalla, e se ne va sotto la neve; ad Alicja senza più memoria, che affronta uno straziante percorso interiore alla ricerca di sé stessa; a Céleste e Sihem, diventate amiche in un centro di recupero, che forse si sono affrancate dalla schiavitù della droga e adesso hanno davanti la paura del ritorno alla ‘normalità’. Sono questi i protagonisti degli otto film in gara, rispettivamente Prendre le large, di Gaël Morel, Francia, 2017, con Sandrine Bonnaire; Genesis 2.0, di Christian Frei e Maxim Arbugaev, Svizzera, 2018, premiato al Sundance Film Festival; Complicity, di Kei Chikaura, Cina/ Giappone, 2018, anteprima italiana, presentato alla Berlinale; My home, in Lybia, di Martina Melilli, Italia, 2018, visto al Festival di Locarno e vincitore del Premio Corso Salani; Winter Flies, dello sloveno Olmo Omerzu, 2018, miglior regia al Karlovy Vary Film Festival; Takara, La nuit où j’ai nagé, di Damien Marival e Kohei Igarashi, Francia/ Giappone, 2018, passato a Venezia nella sezione Orizzonti; Fugue, di Agnieszka Smoczynska, Polonia, 2018, reduce dall’ultimo Festival di Cannes; La fête est finie, di Marie Garel Weiss, Francia, 2018.

GENESIS 2.0

Il Premio per il miglior film è andato a Genesis 2.0, documentario di meravigliosa forza estetica e narrativa. Valgono moltissimo, sul gigantesco mercato cinese, le zanne di mammut che i cercatori riescono a dissotterrare scavando per mesi la terra gelata della Nuova Siberia. Durante una battuta, affiora la carcassa pressoché intatta di un esemplare. Scavando per estrarla, dal corpo fuoriesce un rivolo di sangue. La scoperta attira subito l’interesse degli scienziati genetici. Riprodurre per clonazione l’esemplare di un animale estintosi tre millenni e mezzo fa sarebbe evento eccezionale e redditizio. Frei e Arbugaev riescono a farsi aprire le porte del più grande centro di ricerche genetiche del mondo, non a caso in Cina, e di un laboratorio di Seul che ha clonato finora circa novecento cani e compiuto esperimenti di incroci tra vari animali. Succederà la stessa cosa usando il sangue del mammut? L’interrogativo, ancora aperto, suona comunque angosciante. Premio Speciale della Giuria a Winter Flies, un on the road assai poco epico, che fa sorridere lasciando sulle labbra una punta di amaro. Il giovane Olmo Omerzu è bravissimo nel consegnarci l’adolescenza fragile, i sogni sconfitti in partenza, l’ingenuità, la goffaggine di Mara e di Hedus. Tutto questo farà di loro eroi ben più grandi dell’avventura che hanno vissuto. Il pubblico ha premiato la poesia di Complicity, dedicata alla solitudine di un clandestino senza identità, pian piano lenita dall’amicizia saggia di un vecchio cuoco e dal rituale antico di una ricetta di cucina.

LYBIA

Merita citazione My home in Lybia, dieci anni di lavoro per l’autrice e regista Martina Melilli. Partendo dai ricordi dei nonni, fuggiti da Tripoli dopo il golpe di Gheddafi; archiviato per forza di cose il progetto di un viaggio alla ricerca delle memorie di famiglia, Martina riesce a contattare via web Mahmoud. I dialoghi in chat, i video della città girati di nascosto dal ragazzo, la crescita del rapporto di amicizia, portano Martina a un cambio di rotta nella scrittura, che da intima si fa testimonianza di una nazione ieri colonizzata con gli eserciti, oggi lasciata dal mondo in balia di una guerra fratricida e del terrorismo integralista. Citazione finale va a Manga do. Igort e la via del manga, documentario di Domenico Distilo, che per un mese ha seguito il maestro del fumetto italiano lungo un itinerario giapponese, ispiratore di un nuovo libro sul Paese del Sole Levante. La bellezza della natura, le prospettive degli scorci urbani, l’incontro con uno degli ultimi artigiani della carta e con uno dei pionieri del manga, i ricordi che riaffiorano dai taccuini di viaggio si tramutano in linfa creativa foriera di idee. «Sono le storie che mi vengono incontro, e non io che le elaboro, che le invento», dice Igort. Sessanta minuti assolutamente da vedere.