Detour, dalla Cina alla luna, in mongolfiera
Festival Personali dedicate a Salvatore Mereu e al genio dell’animazione Karel Zeman, premiato come miglior film «Koza» di Ivan Ostrochovský
Festival Personali dedicate a Salvatore Mereu e al genio dell’animazione Karel Zeman, premiato come miglior film «Koza» di Ivan Ostrochovský
Un ex pugile slovacco costretto dalla vita a tornare sul ring, una donna francese sbalzata dalla provincia alla Cina profonda per riportare a casa il figlio morto, i reduci americani da Afghanistan e Iraq accolti in una cittadina della California. Questi i vincitori di Detour, Festival del Cinema di Viaggio, che il 18 ottobre ha chiuso a Padova la sua quarta edizione. Di vincitori e vinti si parlerà poco oltre. A meritare subito attenzione sono invece le rassegne parallele, pizzico di sale che sovente fa la differenza tra piccoli e grandi eventi dedicati al cinema. Le due sezioni accanto a quella del concorso, Omaggio all’autore e Viaggi fantastici, hanno confermato le scelte del direttore di Detour Marco Segato e dei suoi collaboratori. L’autore omaggiato nel 2015 è Salvatore Mereu, cinquantenne di Dorgali, Nuoro. I suoi cinque cortometraggi, da Prima della fucilazione (1999) a Scegliere per crescere (21013) e i quattro lungometraggi, da Ballo a tre passi (2003) a Bellas Mariposas (2012), anteprima mondiale alla Mostra di Venezia, raccontano la Sardegna isola – continente e il suo popolo. Lo fanno disegnando vicende focalizzate sull’amicizia, la famiglia, l’amore, il lavoro dei pastori, una festa di nozze. Vicende dietro le quali prendono corpo meccanismi sociali antichi, nuove ribellioni, gerarchie ancestrali messe in discussione dagli eventi o da mutazioni impermeabili al passato. Mereu è anche insegnante nelle aule scolastiche. Questo doppio ruolo lo gioca nei titoli che ‘escono’ dalla Sardegna delle campagne per entrare nella Sardegna metropolitana di Cagliari. Tajabone è frutto di un anno trascorso tra gli alunni delle scuole medie cagliaritane di via Schiavazzi e via Meilogu. Ammette l’autore «A spingermi fin lì… è stato il cinema. Avevo ultimato da poco una sceneggiatura tratta dal racconto di Sergio Atzeni ‘Bellas Mariposas’ (Sellerio Editore, ndr) e cominciavo a pormi il problema di come e dove ambientarla». Qualcuno degli alunni potrebbe diventare Cate, Luna, Gigi, Tonio. Invece «… Ho cominciato ad appassionarmi ad Angelica, Sara, Abdullah, Brendon… la cui attitudine e il cui vissuto non è certo meno interessante di quello dei loro cugini letterari». Il set di Bellas Mariposas, 2012, è un quartiere popolare di Cagliari che molto somiglia al Laurentino 38 romano, alla via Artom torinese, alla Comasina milanese. Cate e Luna vivono tra uomini infelici, disoccupati, violenti; donne condannate ad essere madri, mogli senza desiderio, eterne sognatrici nel letto di un amante patetico o nelle profezie di una ‘strega’ da quattro soldi; adolescenti sulla sella di una moto e sulla punta di un ago per il buco. Cate e Luna vanno al mare, il sole e un gelato, la promessa di un rapporto eterno, il saliscendi dagli autobus. Poi il ritorno alle case zeppe di mobili poveri e disordine, di frasi a metà tra lingua e dialetto, di urla e di silenzi; il ritorno alle moto, alla piazza del condominio dove nessuna festa è mai tale, all’innamorato fragile su cui si riversa la minacciosa insolenza dei più forti. Ma se Cate e Luna continuano a saper sorridere, qualche speranza forse la nascondono. Altro omaggio, in Viaggi fantastici, Detour lo ha dedicato al regista di animazione boemo Karel Zeman. Che agli italiani Zeman sia sconosciuto, salvo trasformarsi, subito dopo aver visto uno dei suoi film, in sinonimo di genio, lo conferma il pubblico all’uscita dalla sala del Cineporto di Padova. L’aggettivo più ricorrente è, appunto, fantastico. Seguito da interrogativi del tipo ‘Come ha fatto?’, ‘Che trucchi ha usato?’. Pensando ai tempi de La diabolica invenzione (1958) e de Il barone di Munchausen (1962) esclamazioni e interrogativi risultano davvero appropriati. Karel, nato a Praga nel 1912, lavora prima come disegnatore pubblicitario e poi, a fine anni ’30, nella divisione pubblicità cinematografica dell’industria di calzature Bat’a. Con il secondo dopoguerra inizia la sua carriera di regista e realizzatore di effetti speciali che mischiano realtà e invenzioni cui hanno attinto a piene mani, per loro stessa ammissione, Tim Burton e Terry Gilliam dei Monty Python. In quasi mezzo secolo di lungometraggi (Il tesoro dell’isola degli uccelli è del ’52, Hansel e Gretel dell’80) Zemen ha costruito castelli in aria e in terra onirici e ironici, improbabili amanti da feuilleton, potenti prepotenti nella loro ottusità, pirati in marsina e pavidi inventori, avventurieri boriosi ed eroi giocoforza. Ha costruito, sopra ogni altra cosa, un cinema capace di stupire e, così facendo, di trasformarsi, sotto la patina dello spettacolo, in critica aspra alla boria dei regimi. La luna, la nuvola purpurea, i cannoni danzanti, le macchine, la balena, le mongolfiere e i sottomarini, creati e realizzati dal boemo grazie ai suoi prodigi artigianali per La diabolica invenzione e Il barone di Munchausen, sono tasselli di favole che sanno azzerare la distanza dalla vita reale. Quanto ai film in concorso, nove tra Italia, Centro e Sud America, Stati Uniti, Francia, Paesi Nordici e dell’Est, ex Unione Sovietica, hanno ben assolto al compito di declinare la parola viaggio guardando alle migrazioni, all’altrove cui si viene consegnati senza possibilità di rifiuto, alla solitudine delle esistenze, all’evento imprevisto che catapulta nell’ignoto. La giuria, composta dai registi Franco Bernini e Alberto Fasulo e dal produttore Gregorio Paonessa, ha premiato come miglior film Koza, dello slovacco Ivan Ostrochovsky, storia dell’ex pugile Peter Balàz e della sua compagna Misa, emarginati in una povera casa. Misa, rimasta incinta, vuole abortire, e per trovare i soldi Peter dovrà tornare sul ring. Koza non indugia sulle vicende personali, bensì affida loro il compito di esemplificare, restando però in non casuale secondo piano, i tanti vuoti che imprigionano ovunque l’emarginazione. A Voyage en Chine del francese ‘meticcio’ Zolatan Mayer il Premio Speciale della Giuria e il Premio del Pubblico, diviso con il belga Killing Time di Lydie Wisshaupt Claudel. Voyage en Chine, al di là dei riconoscimenti, appare privo di robustezza narrativa, venato di compiacenze estetiche, troppo sbrigativo nell’esaurire alcuni personaggi, scontato nel finale. Di ben altra caratura il film documentario della Claudel, ambientato a Twentynine Palms, deserto della California, cittadina contigua a una base militare, che accoglie i tanti reduci americani dalle guerre di oggi. Ma neppure i gesti e i riti quotidiani sono in grado di restituire ai soldati di ieri la normalità. Il più grande degli esclusi, The Owners di Adilkhan Yerhzanov, è film kazako imperniato sulla corruzione di un misero commissariato nelle campagne di Almaty. Cronaca di una guerra tra poveri, The Owners indossa subito panni allegorici dalle tinte grottesche, diviene coralità folle nelle danze di protagonisti e comprimari, ribalta senza sosta bugie e verità. Non dispiace In your arms, Nelle tue braccia, di Samanau Acheche Sahlstrom. Le braccia di Maria accompagnano il viaggio di Niels dalla Danimarca alla Svizzera. Un viaggio verso l’eutanasia assistita, con un solo biglietto di ritorno.
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