Lo scorso martedì una delegazione di cittadini canadesi e statunitensi, osservatori dei diritti umani, è arrivata all’ingresso del carcere di massima sicurezza La Tolva, in Honduras. Volevano vedere i due prigionieri politici lì rinchiusi, Edwin Espinal e Raul Alvarez.

Sono due dei 23 arrestati in seguito alle manifestazioni di protesta che hanno scosso tutto il paese dopo le elezioni di sei mesi fa. Era il 26 novembre 2017 quando gli elettori furono chiamati, per la prima volta, a rieleggere il presidente uscente, in una giornata caratterizzata da brogli e strani black-out nel conteggio dei voti.

Ci vollero comunque tre settimane per «riconoscere» la vittoria di Juan Orlando Hernandez, confermato alla guida del paese. A guidare la piccola delegazione di attivisti alle porta de La Tolva c’era Karen Spring, una giovane donna canadese che vive dal 2009 in Honduras, dove coordina l’Honduras Solidarity Network.

Karen è la compagna di Edwin Espinal, ma anche a lei è stato impedito di vederlo. Di superare l’ingresso della prigione. «La situazione nelle strutture di massima sicurezza è lesiva dei diritti umani fondamentali: Edwin, arrestato a gennaio, e Raul non ricevono cibo a sufficienza e possono uscire all’aria aperta per appena due ore al mese. In pratica, non vedono mai la luce del sole – spiega al manifesto Karen, raggiunta telefonicamente in Honduras – Ci hanno informato che l’acqua corrente c’è per 5 o 10 minuti al giorno e questo non permette loro di usare i bagni, di lavarsi, portando all’insorgere delle malattie».

Un altro prigioniero politico è detenuto nel carcere di massima sicurezza El Pozo, che i media honduregni descrivono come el infierno, e due nella prigione di El Progreso.

«Dei 23 complessivamente catturati, di cui uno in Costa Rica, restano reclusi in attesa di processo in cinque. Grazie alla pressione internazionale siamo riusciti a farne liberare 17 e tra questi anche Lourdes Gomez, l’unica donna tra i fermati. Restano tutte le accuse formulate a loro carico che vanno dalla violazione e danneggiamento della proprietà privata alla detenzione illegale di armi, ma in questo modo possono difendersi in libertà», sottolinea l’attivista canadese.

Dei 23 prigionieri politici molti sono leader indigeni, contadini, persone che come Edwin sono impegnate nella tutela dei diritti umani e nella difesa della democrazia a partire dal colpo di Stato del 28 giugno 2009.

«Il suo è un caso emblematico e spiega come il governo honduregno approfitti della situazione di crisi post elettorale per lanciare dei messaggi molto chiari a tutti i settori della società civile attivi nella resistenza – spiega Karen – Edwin era già stato torturato nel 2010 e nel 2009 la sua compagna di allora era rimasta uccisa durante la repressione delle proteste popolari intorno all’ambasciata del Brasile, dove si era rifugiato Mel Zelaya, il presidente destituito dai golpisti. Nel 2013, la polizia militare entrò nella sua casa, senza mandato di persecuzione. E oggi è chiuso in un carcere di massima sicurezza nonostante la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (Cidh) abbia riconosciuto “misure speciali” di protezione nei suoi confronti».

Edwin rischia la vita, di diventare l’ennesimo martire, seguendo tragicamente il destino della sua amica Berta Caceres, la leader indigena del Copinh uccisa tra il 2 e il 3 marzo 2016 nella sua casa a La Esperanza.

«Tra coloro che sono stati arrestati,ci sono anche altri leader comunitari. Ad esempio tra le persone di Pimienta, una comunità del dipartimento di Cortés – sottolinea Karen – Il paese vive una fase di transizione. Per la prima volta dopo molti anni, però, non riesco a capire in che direzione si muoverà. La situazione è molto complicata e quella dei diritti umani, e per i difensori dei diritti umani, è in continuo peggioramento. Una certezza la abbiamo, però: il governo non vuole dialogare e infatti al momento non c’è stato nemmeno un arresto per gli omicidi dopo la crisi elettorale (almeno trenta, secondo il Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos en Honduras, ndr), e non fa nulla per proteggere leader indigeni, contadini, donne. Il governo dipende molto dall’appoggio della comunità internazionale. Crediamo che senza questo riconoscimento non sarebbe legittimato ad andare avanti».