È proprio per uscire dall’angolo in cui lo ha spinto un’opposizione inguaribilmente golpista che il presidente Maduro ha giocato la carta della convocazione di una nuova Assemblea Nazionale Costituente, incaricata di approfondire il processo rivoluzionario per trovare risposte alla difficile situazione economica, politica e sociale, sulla base dell’articolo 347 della Costituzione del 1999.

UNA MOSSA A SORPRESA, definita da alcuni come una risposta democratica e partecipativa a tutti i tentativi di destabilizzazione delle destre, togliendo di fatto la parola ai partiti per restituirla direttamente ai cittadini e alle cittadine; ritenuta da altri uno strumento inadeguato a risolvere i problemi del paese e naturalmente bocciata dall’opposizione che, definendola una mossa disperata per evitare «elezioni dirette, libere e democratiche», l’ha subito qualificata come un golpe, ergendosi improvvisamente a difesa di una Costituzione da essa ripetutamente e sistematicamente calpestata.

Non sono mancate tuttavia le critiche degli oppositori di sinistra, secondo i quali il governo Maduro non mirerebbe ad approfondire la rivoluzione, ma solo a mantenersi al potere: «Quando per potere popolare – ha denunciato ad esempio il dirigente di Marea Socialista, Carlos Carcione – si intendono gli organi amministrativi locali di controllo clientelare sociale e politico e la distribuzione della miseria per mezzo dei Clap (Comitati Locali di Rifornimento e Produzione), quando si realizzano elezioni solo negli spazi, sempre più ridotti, in cui il Psuv (Partido Socialista Unido de Venezuela), il partito di governo, è sicuro di vincere, i nomi dati alle cose e i loro contenuti non corrispondono più in alcun modo».

Eppure, il processo della Costituente ha suscitato anche non poche speranze, come emerso chiaramente dall’alta affluenza alle elezioni: di «occasione storica» per «discutere di un nuovo possibile modello di civiltà» a fronte delle «tensioni socio-ambientali» esistenti parla il direttore dell’Istituto Universitario Latinoamericano di Agroecologia “Paulo Freire”, Miguel Angel Núñez, ponendo l’accento sul carattere eco-socialista di tale progetto in vista di una piena sovranità ambientale e del superamento «dell’attuale modello di coesistenza tra proprietà statale e proprietà privata», secondo «una concezione più avanzata» del modello socialista, centrata non tanto sulla proprietà statale quanto su quella sociale dei mezzi di produzione.

UN’OCCASIONE STORICA, come ha evidenziato il candidato Juan Martorano, avvocato e difensore dei diritti umani, anche per combattere non solo i nemici storici del processo bolivariano, ma anche «il burocratismo, l’inefficienza, l’inefficacia, la corruzione e tutti quei traditori che tanto danno stanno facendo all’interno della Rivoluzione».

Nella crisi venezuelana, non si può certo dire che il governo Maduro non abbia fatto errori. A quelli noti e più o meno vecchi – la mancata diversificazione dell’economia, la metastasi della corruzione, il collasso dell’economia formale, il dilagare del mercato nero, l’impunità, le divisioni interne – si è aggiunto il ricorso a misure d’eccezione per fronteggiare i piani golpisti dell’opposizione, come la clamorosa dissoluzione dell’Assemblea Nazionale – poi revocata – da parte della Corte Suprema di Giustizia (per il persistere del rifiuto dell’Assemblea di rimuovere dall’incarico tre deputati dello Stato di Amazonas, invalidati per frode).

SENZA CONTARE IL RUOLO, denunciato dalla base chavista, della cosiddetta «boliborghesia» (cioè borghesia bolivariana), costituita da alti funzionari di imprese pubbliche e dell’apparato statale, militari di alto grado e alcuni imprenditori arricchitisi all’ombra delle istituzioni, a causa del quale, come ha sottolineato il rivoluzionario critico Roland Denis, già viceministro della Programmazione (2002-2003), «Maduro potrà avere le migliori intenzioni ma a imporsi è una lobby molto forte di mafie interne al governo», legate alle banche e alla rendita petrolifera.

Si spiegano così anche i non pochi passi indietro registrati dalla rivoluzione bolivariana, dalla creazione delle Zone Economiche Speciali – parti del territorio nazionale amministrate dai capitali stranieri – all’espansione dell’estrattivismo verso nuove frontiere, a cominciare da quella del mega-progetto dell’Arco Minero dell’Orinoco, che apre quasi 112mila km quadrati, pari al 12% del territorio, allo sfruttamento di oro, diamanti, coltan, ferro e altri minerali, autorizzando, in cambio di entrate monetarie a breve termine, la distruzione irreversibile di una zona coperta da foreste tropicali e savane a caratterizzata da una straordinaria biodiversità e l’etnocidio dei popoli indigeni che la abitano.

A CONFERMA del fatto, evidenziato anche dal sociologo venezuelano Edgardo Lander, che la crisi di oggi non è altro che la logica conseguenza del mancato riconoscimento del fatto che «un’alternativa al capitalismo doveva necessariamente passare per un’alternativa al modello predatorio dello sviluppo, della crescita senza fine» (e dunque per un superamento della dipendenza dal petrolio – che, al contrario, si è accentuata «a livelli storicamente sconosciuti nel paese», fino al 96% del valore totale delle esportazioni – e del modello estrattivista in generale).

Da qui la necessità di un cambiamento di rotta – il più volte auspicato golpe de timón – di cui lo stesso Hugo Chávez si era reso conto prima di morire e che l’Assemblea Costituente è chiamata ora a realizzare.