Al secondo tentativo in meno di due mesi, il Congresso peruviano è riuscito a destituire il presidente Martín Vizcarra per «incapacità morale permanente», una figura costituzionale sufficientemente vaga da poterci infilare un po’ tutto.

Lo ha fatto – con 105 voti a favore e solo 19 contro e quattro astensioni – a soli otto mesi dalla scadenza del suo mandato, con elezioni presidenziali già fissate per aprile e durante una crisi sanitaria ed economica senza precedenti nella storia del paese, tra i più colpiti al mondo dalla pandemia.

E lo ha fatto con i voti dei parlamentari del fujimorismo, che hanno consumato la loro vendetta nei confronti di un presidente che lo scorso anno, sciogliendo il congresso e convocando nuove elezioni, aveva fatto perdere loro la maggioranza parlamentare. E con i voti del partito Unión por el Perú, i cui principali esponenti sono tutti accusati di corruzione, e di Podemos Perú, diretto da un imprenditore, José Luna Gálvez, che ha pagato i giudici per ottenere l’iscrizione del suo partito.

Accusato, in un’indagine tuttora in corso, di aver ricevuto tangenti da due imprese di costruzione per circa 660mila dollari quando era governatore della regione di Moquegua, tra il 2011 e il 2014, Vizcarra si aggiunge alla lunga serie di presidenti caduti nell’onnipresente trama di corruzione di cui il Perù sembra non riuscire a liberarsi mai: da Fujimori ad Alejandro Toledo, da Alán García ad Ollanta Humala, fino a Pedro Pablo Kuczynski, che aveva rinunciato nel marzo 2018 per evitare l’onta della destituzione.

È a lui che era subentrato Vizcarra, distinguendosi paradossalmente, nella breve esperienza alla guida del paese, per la sua decisa lotta alla corruzione (ma non a ingiustizia sociale e devastazione ambientale), che in tanti non gli hanno perdonato.

Al suo posto ha assunto ieri la presidenza l’attuale capo del Congresso, Manuel Merino, del partito di centro-destra Acción Popular, già distintosi, durante il primo fallito tentativo di destituire Vizcarra, per aver bussato invano alla porta dei militari affinché lo aiutassero ad assumere il potere.

E ha giurato da presidente tra le proteste della popolazione – esasperata dalla permanente «incapacità morale» di cui dà sistematicamente prova la classe politica peruviana – al grido di «Congresso golpista» e «Merino ladro».