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Destino di un patrimonio archeologico

Destino di un patrimonio archeologico

Città romane Il restauro «fuori contesto» dei ruderi antichi, i diritti della Storia, il degrado: cosa ci insegna questa «mappa» delle nostre origini urbanistiche

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 12 maggio 2013

Il confronto con il nostro passato sul territorio è giocoforza inseparabile dalla seguente domanda: in che modo e con quali criteri, davanti alle trasformazioni urbane in atto, dobbiamo «includere» le testimonianze dell’antichità per salvaguardarle e meglio valorizzarle? Si tratta di un tema complesso che comporta inevitabilmente sacrifici e limitazioni da parte dei cittadini, e soprattutto – per non commettere errori come già è accaduto e accade – una più adeguata conoscenza scientifica del nostro patrimonio monumentale. Questo patrimonio, sopravvissuto ai danni irreparabili della guerra, alla conurbazione moderna e alle calamità naturali, oggi sembra soffrire più che mai di una incuria generalmente diffusa e – che è più grave – del disinteresse dei soggetti preposti per legge alla sua conservazione.

Conoscere l’archeologia e le origini romane delle nostre città è perciò una condizione necessaria per agire meglio nel futuro, soprattutto nei riguardi dei centri storici (un tema assente ormai dal dibattito architettonico), nei quali di solito si concentrano le antiche preesistenze. Dopo il primo volume sull’architettura romana dei grandi monumenti di Roma – tra i più riusciti tra quelli che compongono la Storia dell’architettura italiana diretta per Electa da Francesco dal Co –, Henner von Hesberg e Paul Zanker proseguono il loro impegno nella collana curando la pubblicazione di una raccolta di saggi inerenti le città italiane: L’architettura romana Le città in Italia (Electa, pp. 441, e 120,00) è la più qualificata e aggiornata sintesi sull’argomento, rivolta non solo a chi ha interessi per l’archeologia, ma a tutti quelli che hanno a cuore la conservazione e la tutela dei monumenti e dei resti dell’antichità.

Nel suo contributo Marcello Barbanera affronta una serie di casi paradigmatici – dal tempio di Minerva ad Assisi trasformato in chiesa cristiana all’«isolamento» dell’arco di Traiano a Benevento, a quello falso di Rimini (in quanto porta urbica); dalle vicende dell’arena di Verona, da anfiteatro a teatro, alle questioni della conservazione delle mura di Aosta –, illustrando efficacemente l’ideologia che dall’Unità al dopoguerra permane non contraddetta, e che consiste, ieri come oggi, nell’«accanimento terapeutico» del restauro sui resti degli edifici romani. Ora ripulendo i monumenta antiqua da ogni superfetazione, ora togliendo ogni loro utilizzo improprio, la modernità, dalla costituzione postunitaria della Direzione Generale delle Antichità alle attuali Soprintendenze archeologiche, si è prefissa di combattere la decadenza fisica dei monumenti antichi astraendoli dal loro contesto per legittimarli ideologicamente. Essi, ci ricorda Barbanera, si sono conservati, ben prima dell’èra del «voyeurismo monumentale», solo perché i nostri predecessori li hanno saputi trasformare in altro: chiesa, carcere, fortezza, palazzo signorile, luogo di spettacolo, ecc. L’esempio più chiaro di questa rincorsa alla «giovinezza eterna» dell’antico è il Mausoleo di Augusto a Roma, che Mussolini liberò dell’Auditorium per farne il «fantasma di una romanità posticcia».

Per secoli si è vissuto tra «i resti del passato trasformandoli con immediatezza e confidenza» (Manieri Elia, 1982), e la città romana ne è una prova. Quando essa non è di nuova fondazione, sviluppa e trasforma quanto già edificato da altre culture, come è accaduto con le città-colonie greche (Siracusa, Taranto) o quelle puniche (Marsala, Tharros), fino agli insediamenti delle altre popolazioni italiche. «La città dunque – sostengono nella loro introduzione von Hesberg e Zanker – non è un’invenzione romana, anche se la successiva evoluzione e soprattutto la successiva percezione suggeriscono talvolta una tale idea». Come scrisse Marcel Poëte, «esiste continuità nella vita delle città», e per cogliere gli elementi salienti di quella romana, nell’arco temporale che va dal IV secolo a.C. fino al IV d.C., è stato necessario conoscere la sorprendente varietà degli insediamenti autoctoni che hanno preceduto la romanizzazione: il complesso processo di egemonia culturale linguistica e iconografica di Roma nel quale la città gioca un ruolo determinante.

Il pregio dei saggi raccolti sta, quindi, nella descrizione di come il mondo ellenistico romano si fonde con gli elementi della cultura greca, punica o degli altri popoli indigeni dell’Italia, in un progressivo processo di «introiezione simbolica». È ciò che Lewis Mumford definì «l’ordine di Roma», che Roma «distillava perché venisse consumato in terre lontane versandolo in bottiglie nuove, mescolandosi nel vecchio involucro ad avanzi e sedimenti di cui non ci si era mai sbarazzati». In epoca repubblicana l’espansione di Roma procede con la fondazione di piccole colonie sulla costa tirrenica: Ostia tra le prime, Puteoli tra le più importanti, nel golfo di Napoli. Delle coloniae maritimae Michael Heinzelmann descrive con precisione l’evoluzione: da semplici castra a vitali centri commerciali che a partire dal III secolo a.C., con l’espansione di Roma verso nord, annoverano nell’Adriatico settentrionale Ariminum, Ravenna, Aquileia, e sulla costa occidentale Pisa, Luni. Alle città portuali segue l’edificazione delle strade. Da Roma si snoda un sistema viario che serve a urbanizzare il territorio. È sopra il loro tracciato che si «incardinano», secondo un razionale impiego di assi ortogonali (cardo e decumanos), le coloniae: avamposti militari oltre che gangli importanti del commercio. All’incrocio di questi assi sorgono il capitolium e il foro, solo dopo si costruiranno le ville e le abitazioni. Gli agrimensori romani nel segnare la strada romana già ritagliano le superfici pronte per essere edificate, «urbanizzando» così il territorio. La strada trascina dietro di sé la costruzione di ponti e acquedotti, archi trionfali e monumenti sepolcrali che «antropizzano» il paesaggio: mai sotto simili forme si era vista prima «l’articolazione visiva dello spazio e il dominio della natura» (von Hesberg).

Pagine interessanti del volume riguardano le abitazioni. Come ci ricorda Richard Neudecker citando Cicerone, le città sono innanzitutto «concentrazioni di domicilia», ma un’altrettanto valida esposizione l’hanno le ville: fulcro di ampi latifondi di proprietà di senatori e cavalieri (Harald Mielsch). Un’attenta analisi è dedicata da Filippo Coarelli al periodo tardo-repubblicano (dagli inizi del II secolo a. C. alla fine del I a. C.), durante il quale trionfa l’urbanistica monumentale romana in particolare nel Lazio. Gli esempi del Tempio della dea Fortuna a Palestrina e del santuario di Ercole a Tivoli ne sono l’espressione più spettacolare. In epoca imperiale le città romane crescono in modo differente tra loro anche se non si realizzano nuovi edifici, piuttosto si migliorano quelli esistenti. Tuttavia alla fine del III secolo d.C., quando ormai è irreversibile lo stato di instabilità dei confini dell’Impero per la minaccia continua dell’invasioni dei barbari, non solo Roma, ma anche altre città del nord, rafforzano le loro cinte murarie di difesa modificando così le loro relazioni con il territorio. Gli eventi della progressiva perdita di egemonia di Roma a causa della vittoria del cristianesimo accresceranno lo stato di declino dell’Impero anche se tra il IV e il VI sec. d.C. le città continueranno a svolgere la loro funzione in qualità di diocesi episcopali. La potenza di Roma si è infranta, ma ne resta il mito attraverso la visione politeista e simbolica del Classico, espressione di straordinari monumenti e città che gli sopravviveranno, sia pur come «frammenti», nei secoli successivi.

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