Un libro fondamentale è stato curato da Fabio Perocco, professore associato all’Università di Venezia. È stato scelto un titolo secco, tagliente, inquietante, quanto semplice, asciutto, quasi descrittivo: Tortura e migrazioni. Un testo liberamente accessibile in internet pubblicato per le Edizioni Ca’ Foscari, che riporta le migrazioni alla loro dimensione materiale, corporea, concreta, abbandonando i discorsi, la propaganda, le retoriche che troppo facilmente avvolgono questa esperienza così profonda, riducendola, banalizzandola o, come sempre più normalmente accade, criminalizzandola.

SE È VERO CHE VIVIAMO nella fase apocalittica del capitale, come la definisce l’antropologa Rita Segato, che investe e attacca, in maniera predatoria, direttamente i corpi, delle donne prima di tutto, allora la dimensione della violenza, fin nelle sue espressioni più cruente e crudeli, deve essere indagata (e combattuta) in maniera prioritaria.

Guardare alle migrazioni attraverso la lente della brutalità e della tortura ne cambia completamente i caratteri, le ragioni, le domande da porsi. Assumere questo sguardo significa lasciare, finalmente, quello dominante dello Stato e delle società di immigrazione. Vuol dire adottare il punto di vista delle persone che migrano, guardando, da quel punto di vista, alle reti fatte di apparati militari e paramilitari, di polizie, di tecnologie di controllo, che proliferano sulla pelle di chi si muove in fuga.

È QUESTO CAMBIAMENTO radicale di prospettiva a rendere così importante questo libro. Il quale, per forza, deve confrontarsi con un rimosso del discorso pubblico e politico sulle migrazioni: quello della violenza agita contro le persone migranti. E non una violenza qualsiasi, ma quella, precisa, della tortura. Di una violenza che non abbandona mai più chi la subisce. Come ricorda Primo Levi in I sommersi e i salvati, citando Jean Améry, il filosofo austriaco attivo nella resistenza belga, torturato dalla Gestapo e, poi, in quanto ebreo, deportato ad Auschwitz: «chi è stato torturato rimane torturato. (…) Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più».

UN’INTRODUZIONE-SOMMARIO e venti capitoli distribuiti in tre parti, che distinguono le questioni di fondo, lo studio di 13 casi (Spagna, Belgio, Regno Unito, Stati Uniti, Brasile, Argentina e più ampiamente America Latina, rotta balcanica, Marocco, Darfur/Israele, Libia, Italia), le condizioni di salute, disagio psichico e tutela assistenziale.

Un libro che ha impegnato trenta tra autrici e autori, capace di rendere evidente l’intreccio, storico e attuale, tra tortura e migrazioni: un intreccio, in maniera solo in apparenza paradossale, che si presenta tanto attuale quanto più le migrazioni sono governate e definite come tema di ordine pubblico e sicurezza: la sicurezza, evidentemente, di alcune popolazioni, ma non di tutte. La sicurezza che non riguarda chi attraversa mari, deserti e montagne; chi viene costretto a mesi o anni di attesa in centri di accoglienza o in campi profughi; chi può essere separato dai suoi figli; chi può essere rinchiuso in un campo in attesa che altri decidano sul suo destino.

È di questa riduzione a oggetto e merce di tale umanità che il libro si occupa, riconoscendo nella tortura non una barbarie ormai passata o un’eccezione del presente dovuta agli arbitri di singoli, ma un fenomeno proprio dell’età odierna. Come scrive Fabio Perocco: «la tortura è una pratica ordinaria, sistematica, quotidiana, non è il frutto di schegge impazzite, di mele marce, di malfunzionamenti accidentali degli apparati statali o del sistema. È parte integrante del sistema». Essa è possibile, nonostante il diritto internazionale la vieti in maniera assoluta, in quanto si fonda sul diritto speciale del nemico, a cui le persone che migrano sono associate.

LA GUERRA ALLE MIGRAZIONI, l’irrigidimento ormai consolidato delle politiche migratorie, la diffusione delle pratiche del razzismo istituzionale e dell’illegalizzazione crescente delle migrazioni, l’esternalizzazione delle frontiere costituiscono l’impalcatura strutturale della proliferazione delle forme di tortura, nonostante esse siano ormai fuori dal diritto internazionale, censurate in maniera radicale da una molteplicità di convenzioni.

D’altronde, siamo dentro un fenomeno che ha una serie di implicazioni sull’economia politica delle migrazioni, in quanto rapporto sociale di sottomissione che contribuisce a produrre popolazione indebolita, utile, in ultima istanza, a specifici settori economici, ma anche sulla costruzione del consenso. In questo senso il caso della Libia per l’Unione Europea è un paradigma. Le popolazioni europee sanno cosa accade nei campi di prigionia in Libia e, in maggioranza, stanno zitte; anzi premiano i partiti politici che quei campi contribuiscono a mantenere aperti con i loro accordi, a partire dal Memorandum Italia-Libia del 2017, recentemente rinnovato. Evidentemente, la tortura è ancora una pratica socialmente legittimata. Preferibilmente, però, lontano dalla vista.