Desolazione di una madre nella gelida brevità di Inès Cagnati
Alias Domenica

Desolazione di una madre nella gelida brevità di Inès Cagnati

Scrittrici francesi «Génie la matta», da Adelphi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 24 aprile 2022

Chi volesse sperimentare la desolazione riflessa in una scrittura che la asseconda fedelmente, concendendosi frasi brevissime e spoglie di ogni descrizione superflua, la cerchi in quel trionfo di brutale laconicità che satura il volume stampato da Adelphi con il titolo Génie la matta (traduzione di Ena Marchi, pp. 184, € 18,00) scritto da Inès Cagnati, figlia di contadini di un paesino del Lot-et-Garonne, la cui provenienza si riflette nel mondo che descrive, fatto di accudimento di animali, preparazione del maiale ucciso con il contributo delle proprio mani, raccolte di piselli e di fave, sarchiature del granturco e insomma nulla di desiderabile nella vita, come Génie più volte ripete, crudelmente, alla figlia concepita da uno stupro: «Non ho avuto niente io»; mentre la bambina, che la adora e la aspetta trepidante al ritorno dal lavoro, le risponde: «Hai me».

Ben povera cosa, si direbbe, quel frutto indesiderato di una violenza che si ostina a non mutarsi in nulla di amabile, proiettando su tutto il romanzo una atmosfera gelida, sinistra, avara di espressività, ciò che ne ha fatto un caso letterario, la cui miseria affettiva in qualche eco rimanda alla ben più letteraria Trilogia della città di K di Agota Kristof, con la quale ha in comune, per la verità, solo la straordinaria eccedenza di frustrazione subita in una infanzia privata di affetti. A Marie che la adora, quella figura senza rassegnazione possibile che chiamano «la matta», si rivolge solo per apostrofarla: «Sta zitta», «Non guardare», «Non starmi alla calcagna». Tuttavia in qualche modo Génie provvede alla sussistenza della bambina, la cura quando si ammala, si occupa sebbene ai minimi termini del suo corpo, e sembra non voler sapere quando quel corpo verrà violato dallo stesso muratore che ha abusato di lei.

Tutta la scrittura pare scavarsi intorno a quel terribile impedimento all’affetto, intorno a quel vuoto che si vuole senza riscatto; ma di fatto quella che è stata letta come una terribile sobrietà si converte in una sorta di lussureggiante esibizione della miseria emozionale, tradotta in una scrittura che ne mima i gesti, forse non immune da qualche forma di compiacimento.

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