Robert Desnos è un nome che in Italia non suona familiare. Osservando i suoi occhi vitrei, fissi, carambolanti vers l’avant, da allucinato personaggio dostoevskiano, sembra quasi egli abbia visto sin dall’inizio il destino che lo aspettava: i lager di Auschwitz, Flossenbürg, Flöha e poi quello fatale di Terezín. Destino crudele ma già iscritto nell’esatto e rivelatorio genetliaco, 4 luglio 1900. Parigino, di padre banchiere, irregolare negli studi, commesso in una drogheria a diciassette anni – momento in cui comunque incontra esiodeamente le Muse nell’Elicona del quartiere popolare Halles –, segretario e frequentatore assiduo di anarchici mattacchioni, Desnos entra in contatto con Breton, Péret e i dadaisti. Si avvia rapido alla scrittura automatica e alle tecniche ipnotiche fino a diventare – parola del fondatore – il «profeta» del surrealismo. Scrive su «La Révolution surréaliste», si innamora della «stella» Yvonne George (prematuramente scomparsa). Verso la fine degli anni venti viaggia in direzione di Cuba e pubblica le prime opere di rilievo. Si distacca con progressiva convinzione da «Breton bovine» per ragioni di carattere politico, conosce Artaud, Picasso e Hemingway. Si lega successivamente alla «sirena» Lucie Badoud, chiamata Youki dal precedente marito. Incomincia a dedicarsi alla pubblicità in radio. Nel ’30 esce per Gallimard il libro Corps et biens, considerato il suo capolavoro, a cui seguono Fortunes (’42) e il romanzo Le vin est tiré… (’43). Il 22 gennaio 1944, nell’appartamento in rue Mazarine, è arrestato dalla Gestapo per le sue «attività antinaziste».

Il verbo al mocassino
Facciamo un passo indietro, torniamo all’incipit. La lacuna della conoscenza italica di questo autore strambo e sofisticato è ora colmata. Il nostro agente all’Avana è Pasquale Di Palmo, il quale firma un caloroso saggio creativo Le bonjour de Robert Desnos Dalla scrittura medianica al Lager (con quattro lettere inedite a Youki dalla prigionia, MC edizioni, pp. 155, € 14,50) che si congiunge alla sua traduzione e curatela dell’unica antologia edita nel nostro paese, La colomba dell’arca Poesie 1922-1944 (Medusa, pp. 178, € 19,50). Dotatissimo – come Crevel – sotto il profilo medianico, Desnos sin da Corps et biens (silloge da cui parte l’allestimento di Di Palmo che comprende anche Fortunes, Destinée arbitraire e Contrée) dimostra un’inclinazione per lo sperimentalismo estremo, trovando soluzioni stilistiche assolutamente nuove o desuete: calembours polisemici, palilalie, blagues, vasto désordre formel, tutto rivolto alla ricerca di una beauté convulsive capace di esporre la profonda crepa dell’insufficienza espressiva, la langage cuit – si ricordi Duchamp: «il linguaggio è un errore dell’umanità» – contro l’evenire di una condizione soggettuale che mira a soddisfare il suo sempre più capiente bisogno di pienezza e claritas (a questo potrebbe alludere il titolo biblico da Genesi 8,10: «Aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca»). Un esempio? Il verbo al mocassino: «Io conosceremo questa donna ideale / (…) Noi amate così poco i nostri occhi / crollerò questa lacrima senza / ragione ben inteso e senza tristezza. / senza». Evidenti sono l’insurrezione delle parole, il moto carbonaro dei referenti, il tentativo di scardinare la sintassi e i nessi morfologici per rendere rubescente il rapporto corporale dei fonemi e delle catene sillabiche. Questa scoppiettante contiguità di suoni diviene delirio consecutivo nella spericolata title-track: «Maledetto / sia il padre della sposa / del fabbro che forgiò il ferro della scure / con la quale il boscaiolo abbatté la quercia / in cui si scolpì il letto / dove fu generato il bisnonno / dell’uomo che conduceva la vettura / nella quale tua madre / incontrò tuo padre». Come commenta il curatore nell’introduzione, «sembra di intravedere, nella splendida Colombe de l’arche, quella consequenzialità tipica di certi testi redatti in seguito da Queneau o Perec mentre in altri frangenti il piglio popolaresco ricorda le sequenza urbane di Prévert che, non a caso, con Desnos condivise l’esperienza surrealista». È il vario attingere a «sonni ipnotici» che porta Desnos verso una continua sfida delle proprietà lessicali e cognitive, sfociate nel dinoccolato Rrose Sélavy, il quale – Dio ci scampi! – «si proponeva di essere il risultato della comunicazione telepatica fra lo stesso autore e Marcel Duchamp che si trovava allora a New York».

Liriche clandestine con pseudonimo
Ma la carriera poetica di Desnos ha un improvviso scatto. Da Fortunes in poi gli spassosi incidenti linguistici perdono colpi «a favore di una maggiore fruibilità e una più spiccata adesione al destino, singolo e collettivo, dell’uomo». Qui il dettame deborda, sceglie forme chiuse (il sonetto) desacralizzandole, si allinea ai pensosi tempi della prosa, fuoriesce e si riasciuga. E in particolare il tono – percorso da fumiganti slanci d’amore indirizzati alla sua «sirena» – si fa più appassionatamente etico e integro, soprattutto nelle liriche clandestine pubblicate sotto pseudonimo durante la Resistenza. In Le bonjour de Robert Desnos Di Palmo scrive: «Ed è infatti l’aspetto etico, che si pone come irredimibile conquista, a caratterizzare la fase della poesia di Desnos susseguente al surrealismo. Ma non si tratta, come succede per tanta poesia impegnata, di un aspetto dominato da esiti retorici o demagogici, bensì della reale condivisione delle motivazioni inerenti all’uomo cantato nella sua disarmante quotidianità, l’uomo “che sente le calze indurite dal sudore del giorno prima e le rimette / E la sua camicia indurita dal sudore del giorno prima / E la rimette / E che dice al mattino che si laverà la sera / E la sera che si laverà al mattino / Perché è troppo stanco”, come si legge in Uomini».
Tale valorosa opposizione alle violenze esistenziali e storiche è l’irriducibile stigma che accompagna Desnos nel luogo più feroce della terra, con una solidità solidale e una polverizzazione del negativo assai prossime all’esuberante accettazione della propria sorte. «In definitiva – questo è forse il suo vero testamento – non è la poesia che deve essere libera, ma il poeta».