Filosofo, critico letterario, storico delle religioni, sociologo, antropologo. Questo e molto altro è stato René Girard, straordinario osservatore delle relazioni umane. Scomparso ieri all’età di 91 anni, lascia alle proprie spalle una tra le eredità più affascinanti e originali del Novecento. La morte, dopo una lunga malattia, è stata annunciata nel sito dell’università di Stanford – dove Girard ha insegnato fino al 1981 – grazie a Cynthia Haven che attualmente sta ultimando la monografia The Last Hedgehog: René Girard, A Life.

La sua collocazione nel post-strutturalismo non restituisce la complessità del suo pensiero, né dell’incessante volontà di trovare un varco che gli consentisse già dai primi anni Settanta di congedarsi da Lévi-Strauss detonando infine la psicoanalisi freudiana a cui, in realtà, non ha mai aderito interamente se non concentrandosi su alcuni nodi concettuali cari a chi è stato suo interlocutore, vicino e a tratti troppo lontano. Tra i tanti ricordiamo Foucault, Deleuze, Barthes, Derrida. Sta di fatto che la circolazione e la ricezione delle teorie di Girard sono state di rilievo mondiale e gli hanno assicurato un posto tra gli intellettuali più rappresentativi della sua epoca. Già dal 1961, con il suo primo libro, Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani, 1965) affronta la sua teoria più nota, quella del desiderio mimetico. Attraverso il romanzo moderno comincia a profilare la teoria secondo cui il desiderio è una triangolazione tra il soggetto, l’oggetto e il mediatore (il modello) che suscita l’interesse della comunità scientifica internazionale. Che il primo nucleo della teoria del desiderio mimetico si inserisca in un volume di critica letteraria segnala il grande amore di Girard verso le scritture, un amore consapevole della potenza che la letteratura ha di spiegare e rappresentare l’umana condizione e ciò che la infelicita, certo una significazione irraggiungibile dalle scienze sociali. Scrive pagine densissime nel suo Dostoevskij dal doppio all’unità (1963, poi SE 1987) e in Critique dans un souterrain (1976), sempre dedicato al romanziere russo. Il pungolo letterario non smette di interrogarlo; fondamentale il suo Shakespeare. Il teatro dell’invidia, del 1990 (Adelphi, 1998) con successive incursioni nei testi di Stendhal, Flaubert, Proust e molti altri. Nella primavera del 2008, per le edizioni della Stanford University, pubblica il volume Mimesis and Theory: Essays on Literature and Criticism, 1953-2005 che descrive bene la formazione e il dipanarsi del grimaldello critico della mimesis all’interno della letteratura.

Il desiderio non è una spontanea manifestazione dell’autonomia individuale, ecco la menzogna romantica e la conseguente verità romanzesca che si evince da alcuni esempi che Girard, dai primi anni Sessanta, non abbandona. Uno tra tutti è ascrivibile al capolavoro di Cervantes là dove Don Chisciotte comincia la sua impresa imitando colui che considera un modello di cavaliere errante, Amadigi di Gaula. Il mimetico interviene a spiegare che non si desidera mai un oggetto in maniera lineare, bensì solo in virtù di ciò che desidera l’altro che tuttavia da modello si trasforma presto in rivale, soprattutto nei casi di «mediazione interna» quando cioè il soggetto desiderante e il modello si confrontano reciprocamente sull’impossibilità di desiderare entrambi la stessa cosa. Il conflitto che ne scaturisce può raggiungere picchi esiziali dando luogo a odio, vendetta e violenza. Si desidera ciò che l’Altro possiede, certo, ma a ben guardare anche colui che ci fa accedere al desiderio. E se i paraggi lacaniani a un risultato simile non potranno sfuggire, la differenza è sostanziale: ciò che per Lacan si tratteggia nel simbolico per Girard accade su un piano antropologico, culturale e sociale. Il simbolico lacaniano, per Girard, non tiene conto dell’aspetto materiale. Una miopia, la stessa che attribuisce anche a Freud, verso l’esito della mimesi; quel che davvero dovrebbe interessare è, infatti, il momento della crisi sacrificale. È all’altezza del suo La violenza e il sacro pubblicato nel 1972 (Adelphi 1980) che si congeda dallo strutturalismo e quindi da Lévi-Strauss e decostruisce le posizioni freudiane, definendo meglio la scommessa del mimetico. Mostra il legame tra la teoria mimetica e la violenza attraverso una rilettura analitica di miti e riti classici.

Se alla psicoanalisi manca l’aggancio con il reale, con la cultura materiale, che consentirebbe di interagire diversamente con il mito classico e con la tragedia greca, è appunto nella violenza e nella sua reciprocità che poggia il vincolo sociale. È il sacrificio, inteso come «una violenza senza rischio di vendetta», che interrompe la sequela della tensione mimetica conducendo all’individuazione di una vittima espiatoria, un altro a cui poter attribuire tutta la carica violenta che manderebbe in cortocircuito l’intera comunità; un altro che possa essere espulso o ucciso e che fermi temporaneamente il propagarsi della violenza.

L’innocenza è secondaria. È invece interessante come il sacrificio, per essere tale, corrisponda a una resa prestabilita di possibili reazioni vendicative. La vittima è interna al sistema sociale, consolida una somiglianza con chi o cosa va a sostituire, e ciò nonostante resta un chiunque la cui perdita è disposta come necessaria e ugualmente trascurabile. Nella figura della sostituzione sta il carattere casuale del sacrificio rituale giacché se per un verso vi è una scelta riconoscibile, condivisa, d’altra parte è presente la connotazione del «capitare a tiro» di una vulnerabilità. I caratteri sacrali assunti dalla vittima il cui sacrificio pone fine al contagio della violenza, sono della stessa intensità dell’attribuzione arbitraria di responsabilità non sue.

Tassonomie delle passioni umane, i testi di Girard raccontano di furore, ira, risentimento disseminati nei luoghi tragici più incandescenti. È in questa direzione che si apre la riflessione su Edipo, il capro espiatorio di cui Freud non ha colto il tenore. Nel libro di interviste del 1978, Quando queste cose cominceranno (Bulzoni 2005) e in Il capro espiatorio (1982, poi Adelphi 1987) dettaglia con altrettanta chiarezza il meccanismo vittimario, spostandosi tuttavia alle cose ultime e alla parola biblica. Cattolico raffinatissimo, viene eletto membro dell’Académie française il 17 marzo del 2005 entrando nella categoria degli immortali.