Ambientato alla metà degli anni Novanta, quando le speranze di pace di israeliani e palestinesi furono spazzate via dall’assassinio di Rabin, e situato nel microcosmo di Castel, un villaggio appollaiato in cima a una collina a metà strada fra Tel Aviv e Gerusalemme, Nostalgia (Neri Pozza, pp. 352, euro 17,00) è il romanzo d’esordio di Eshkol Nevo, già pubblicato da Mondadori nel 2007 nella traduzione di Elena Loewenthal, e ora presentato in una edizione, curata da Raffaella Scardi, che tiene conto di alcune integrazioni da parte dell’autore.
«Non c’è una Tel Aviv celeste e una terrestre. C’è solo una banale Tel Aviv» – scrive Nevo. Nella capitale nessuno si nasconde dietro un muro vecchio di duemila anni, e non si vede un arabo, né un religioso, né genitori in lutto. «I primi giorni che ho abitato a Gerusalemme, invece, mi pareva fosse Carnevale. Tutti mi parevano mascherati: gli ultraortodossi con i loro abiti da pinguini; le donne con la femminilità che esplode dai vestiti supercasti e abbottonati; gli intellettualoidi abbonati alla Cineteca con le camice a quadretti e quello sguardo così serio che non può essere vero; il vecchio yemenita venditore di falafel».
È con gli occhi di Noa, studentessa di fotografia a Gerusalemme, in crisi perché non riesce a trovare il progetto per la sua tesi, che vediamo le due città. Da qualche mese Noa vive con Amir, studente di psicologia a Tel Aviv, smarrito perché non sa frapporre nulla tra sé e il dolore di chi frequenta il centro per malati mentali in cui fa il tirocinio. Amir riesce solo ad assorbire quel dolore e lo porta a casa con sé, come un gas sottile che rischia di soffocare il suo rapporto con Noa. Se hanno deciso di vivere insieme a Castel è perché il villaggio è a metà strada fra le due città, in cima a un colle dove non sono i soli a stare male. Il piccolo Yotam soffre perché suo fratello Ghidi è caduto in Libano e lo commemora costruendo un monumento di sassi nel campo dietro la casa. Soffre anche perché i genitori, impietriti dal dolore l’una e dai sensi di colpa l’altro per aver costretto il figlio maggiore ad andare in guerra, lo ignorano al punto da dimenticarsi il suo compleanno. Per fortuna trova un surrogato del fratello in Amir, che con lui gioca e pazientemente aspetta che gli tornino le parole. L’insegnante legge in classe il capitolo della vigna di Nabot e poi chiede perché Nabot si rifuta di consegnare al re la sua proprietà. Yotam, che da quando è morto il fratello non apre bocca, alza la mano: «Ho detto che Nabot non poteva accettare l’offerta del re perché lui era nato su quella terra, ci era cresciuto, e se avesse ceduto la sua casa sarebbe stato come cancellare tutto quello che suo padre e sua madre avevano fatto, e allora avrebbe trasgredito al precetto onora tuo padre e tua madre».
Saddiq nella sua casa è nato ma non ci è cresciuto, perché nel Quarantotto la sua famiglia ne è stata cacciata. La madre di Saddiq porta ancora appesa al collo la chiave arrugginita della vecchia casa e racconta il giorno in cui Nasser, «la faccia bianca come il mezzogiorno», si è avvicinato al microfono e ha spiegato «che gli americani avevano aiutato gli israeliani nella guerra, che l’aviazione israeliana aveva attaccato per prima e che i soldati egiziani avevano combattuto da eroi, anche i giordani avevano combattuto da eroi».
Alla fine Nasser disse che il colpevole era lui e rassegnò le dimissioni dalla presidenza. Ora Saddiq fa il muratore a Castel e a poco a poco si rende conto che la casa di fronte a quella in cui lavora è la casa della sua infanzia. Dentro ci abitano due anziani immigrati curdi: il vecchio non ci sta più con la testa e il giorno in cui Saddiq, con la chiave in mano, suona il campanello e gli ricorda che lui e la moglie sono suoi ospiti da cinquant’anni, il vecchio lo accoglie festoso perché crede di riconoscere in lui il figlioletto morto quando ancora la famiglia non era immigrata in Israele.
Ognuno dei personaggi di Nevo ha nostalgia di qualcosa, sotto forma di un desiderio pungente di amore, o di amare in modo diverso, rimangiandosi per esempio tutto il non detto che ha divorato la relazione, o sotto forma del rimpianto malinconico di ciò che è trascorso, di una casa che non c’è più, di quello che è ormai lontano nel tempo. Ognuno di loro vuole ritornare a qualcosa più che a qualcuno.
Nostalgia di un sé che non c’è più, di uno stato di grazia che si è perduto. Ed è proprio nella nostalgia che Noa trova il tema per la sua tesi. Capisce che «non esiste inquadratura che abbia una storia soltanto» e fa sua la lezione del professore di storia della fotografia: «Cercate sempre, ai margini, altre storie». Quella che leggiamo è, in fondo, la singolare tesi di laurea di Noa.
La politica filtra obliqua, e prende le sembianze di attentati sugli autobus che irrompono nelle cucine all’ora dei pasti, di carri armati rugginosi lungo la strada per Gerusalemme, di vecchie case arabe dal tetto sfondato e dai muri diroccati là dove finisce un sentiero tra gli sterpi. Ovunque aleggiano i fantasmi che attanagliano Israele: la morte di un giovane soldato in Libano, un anziano muratore palestinese che riconosce la casa dalla quale è stato costretto ad andarsene. Nei Ringraziamenti in fondo al libro Nevo esprime gratitudine verso chi lo ha aiutato a capire l’esperienza della nakba, la «catastrofe», il nome con cui i palestinesi chiamano il Giorno dell’Indipendenza di Israele.
«Sono passati cinquant’anni ormai, ma l’offesa dentro è ancora bagnata come la terra subito dopo la pioggia» dice Saddiq. Qualche settimana dopo la fine della guerra del Sessantasette tanti hanno cominciato a visitare le vecchie case, «zitti zitti, senza sbandierarlo, caricavano tutta la famiglia sul furgone». Trovavano le loro case in ottimo stato, ma abitate dagli ebrei.
Nevo descrive donne e bambini con grande partecipazione – si fatica a staccarsi da Yotam quando si chiude il libro – e per il disagio di ciascuno trova una voce subito riconoscibile. Ogni personaggio racconta la propria storia e ogni tanto un narratore esterno riannoda i fili, stemperando a volte il tutto in un’ironia sottile. Alla fine di ogni capitolo – di ogni «stanza» – il testo di una canzone imprime un mood diverso alla narrazione. E pure un tempo, un ritmo differente, sicché pare di avere tra le mani ora un romanzo in versi, ora un blues, ora un rap che si protrae per pagine: «Non un angelo, né un cherubino, e nemmeno un soldatino. Alla consegna dei giornali ci pensa un uomo di mezza età, che un lavoro migliore non ce l’ha. Due mesi fa è stato licenziato: ora non fa più l’impiegato, ma meglio questo che essere disoccupato. E gli va bene di uscire di primo mattino, così non deve incontrare nessun vicino». Una lingua e un ritmo per raccontare un paese, ma soprattutto uno stato d’animo in cui il confine tra desiderio e malinconia è labile.