Qualche giorno prima della fine del 1985 uno dei miei più vecchi amici romani, Raniero Gnoli, mi invitò a accompagnarlo al pranzo di Natale dai Pasolini dall’Onda che volevano conoscermi. Avevo già incontrato Desideria, un’ex-allieva di Mario Praz, molto attiva per quel che riguardava gli interessi civici dell’epoca, infatti fu tra i fondatori di Italia Nostra. La famiglia era composta da lei e dai suoi fratelli, Pier Maria, Martino, Niccolò e Ginevra. Da allora ho continuato ad andare a quegli incontri ogni anno fino alla pandemia recente quando quelle festività sono divenute cupe o assenti. Quelle a Palazzo Pasolini erano sempre state celebrazioni piuttosto speciali poiché quella famiglia parca, quasi severa di costumi, riceveva i suoi amici con una elegante sobrietà. In qualche modo presentii che quel tipo di cerimonia era uno degli ultimi avvenimenti di una società piuttosto riservata in cui non era uso comportarsi con troppo esibizionismo. Più che ridere si sorrideva, le maniere erano corrette ma non vistose. Avevano bei possedimenti in Romagna dai quali portavano appositamente tutto l’occorrente e i menù erano di prim’ordine: ogni cosa era italiana e ad ogni ospite erano donate bottiglie dell’eccellente vino di casa, generose quantità di parmigiano e un ottimismo moderato.
In una di queste ricorrenze, chiesi a Desideria se erano imparentati con Pier Paolo Pasolini che avevo incontrato a Roma più volte attraverso amici comuni. Desideria mi spiegò che Pier Paolo era un loro cugino, figlio di un ufficiale, ma uno dei membri della famiglia allora presenti a tavola negò la parentela con una insistenza fuori luogo. Desideria, cosciente comunque delle proprie relazioni, non credeva nel name dropping e non vantava mai l’appartenenza della propria madre alla stirpe dei Borghese. Quel giorno non rispose a chi la contraddiceva.
Il vecchio Palazzo Santacroce, appartenuto in passato a un’antica famiglia romana, venne acquistato dai Pasolini nel 1904 e a tutt’oggi appartiene a loro. Si trova di fronte alla chiesa di San Carlo ai Catinari ed è noto per il buon ordine in cui viene tenuto. Ha un carattere ancora molto famigliare e conserva diversi quadri di pregio, primi a mio gusto alcuni dipinti del Mastelletta. Gli arredi sono anch’essi notevoli ma senza particolare fasto: gli appartamenti sono tutti di nobile aspetto ma non vistosi. Gli invitati erano sempre una cinquantina, distribuiti in una serie di piccoli tavoli, con sedie di Chiavari dorate, tovaglie di lino e piatti di maiolica con cifre azzurre. Attorno, grandi tende scarlatte e mobili eleganti ma semplici.
Per quelle giornate di festa arrivavano i giovani della famiglia, che includevano i figli di Pier Maria e di Niccolò. I primi si occupavano di cinema con un certo successo che arrivò al trionfo con la produzione di The Full Monty, un ironico film sullo spogliarello maschile decisamente fuori dal comune che ebbe anche un grande risultato economico. La figlia di Niccolò era bellissima e piuttosto anglofila come i cugini, i film dei quali fanno parte della cinematografia inglese.
Niccolò era un grande ammiratore di Vittorio Emanuele II che difendeva a spada tratta, come salvatore della patria, in perenne diatriba con Desideria che era molto più liberale di lui: si adoravano nonostante le continue discussioni in cui lei finiva muta e lui alterato ma senza alzare la voce. Non mancava di sorprendermi quella fraterna, perenne ostilità. Desideria, che rivelava una certa tendenza al comando, era comunque dolce e affettuosa e in lei si apprezzava sempre il grande merito di difendere il patrimonio artistico e naturale del paese che amava. Ma lo faceva così come lo aveva sempre fatto l’aristocrazia italiana, che seguiva, si direbbe, una legge connaturata fin dalla nascita. Non l’ho mai sentita parlare della monarchia.
Lungo molti anni quella casa divenne per me la scena di ogni Natale dove presenziai lentissimamente alla scomparsa di una civiltà del vivere che per me, non italiano, aveva qualcosa di esotico. Non a caso Pier Maria aveva sposato una parente di Luchino Visconti e un sapore nostalgico sembrava seguirmi ogni volta che visitavo quei personaggi che diventano ogni giorno più rari. Lo stesso commento potrei farlo oggi se penso ai professori italiani che conobbi a Firenze quando venni a finire i miei studi universitari nel 1957. È vero che un grande poeta spagnolo ebbe a dire qualche secolo fa: «cualquier tiempo pasado, fue mejor».