Trentanove anni, ossuta ed elegante, imbraccia la chitarra e canta il dramma di Desdemona come fosse il suo, anche se nella piecè sostiene in chiave musicale il ruolo di Barbary. Rokia Traorè è tra le più acclamate voci dell’Africa contemporanea con un medagliere di riconoscimenti raccolto un po’ ovunque in Europa. La incontriamo per la prima nazionale di Desdemona, il fortunato spettacolo diretto da Peter Sellars e interpretato da Tina Benko nei panni di Desdemona su un testo della scrittrice afroamericana Toni Morrison ospitato al Napoli Teatro Festival Italia che ha chiuso domenica la sua sesta edizione. Sulla scena in compagnia di una parte del suo gruppo la cantante maliana fa appello alla sua forza di donna figlia dell’elite diplomatica del suo paese, consapevole della sua fortuna e grazie a questo impegnata attraverso la musica nell’emancipazione di un territorio devastato dalla violenza di una terribile guerra tutt’ora in atto.

È dal 2011 che insieme con Sellars rappresenti il testo scritto da Toni Morrison, premio Nobel nel 1993, nell mondo, cosa c’è di diverso nel personaggio rispetto all’originale scespiriano?

Il dramma di Desdemona così come lo ha immaginato Toni è concentrato su un aspetto che nell’originale è del tutto marginale, cioè il rapporto tra la sfortunata moglie di Otello e la balia africana che l’ha cresciuta e educata come una figlia. È un rapporto tra donne in apparenza diverse ma profondamente unite dall’amore. Barbary è il nome della balia cui abbiamo dedicato il nostro interesse di donne offrendole la rivincita della storia. Barbary appartiene ad un contesto geografico che il drammaturgo inglese non conosceva. Dietro il suo nome si nasconde una realtà culturale fatta di simboli, abitudini sociali, tradizioni molteplici e complesse che nell’Inghilterra del XVII secolo era praticamente sconosciuta. Il tema del contrasto e della diversità etnica era presente nella fonte originale di Giambattista Cinzio e io e Toni l’abbiamo recuperato in chiave femminile.

Durante la vostra collaborazione come si è strutturato il vostro rapporto e quali sono state le differenze culturali tra una donna afroamericana e una africana?

Non ho mai visto il nostro lavoro sotto questa luce. Per me Toni è stata una fonte di apprendimento enorme. Lei è più grande e più saggia di me, è stato uno scambio tra generazioni diverse più che tra culture differenti. Toni è stata una specie di madre, mi ha insegnato molto e non solo rispetto al nostro lavoro ma rispetto alla vita, l’ho sentita nel mio presente in una maniera totale. Nella mia formazione scolastica ho studiato come traduttrice e insegnante di inglese ma non ho mai esercitato la professione.
L’incontro con Toni mi ha spinto a riflettere sulla lingua in termini culturali, intellettuali ma anche rispetto agli elementi stessi di grammatica della lingua. È stata una sorta di riscoperta di cose che già sapevo ma che non avevo mai approcciato in una chiave così approfondita e complessa. Forse il fatto di riflettere su una questione che è anche razziale in qualche modo, implicitamente, ci ha fatto pensare rispettivamente alle differenze culturali, ma mai in maniera consapevole. Certo abbiamo le stesse radici, siamo ambedue nere ma le nostre riflessioni erano rivolte soprattutto alla libertà e ai diritti femminili e mi sono trovata quasi sempre d’accordo con le sue considerazioni.

Come è nato il progetto di Desdemona e in che cosa è consistito il tuo ruolo al di là della presenza sul palco?

Fu Sellars a metterci in contatto dopo che lui e Toni avevano deciso di scrivere una pièce tratta dall’Otello sfatando l’idea che Peter stesso aveva di un dramma dai toni un po’ fiacchi. Abbiamo cominciato un fitto scambio di email, lei lanciava le idee, dava le indicazioni e io eseguivo. La visione di Toni aggiunge un colpo di scena che è anche una forte alterazione dell’originale con aggiunte importanti proprio nella visione femminile del dramma originale. In questo senso non c’è stato un vero e proprio confronto culturale tra Toni e me, questo per tornare alla domanda precedente. Mi sono messa nella posizione di dover imparare. Era la sua visione del mondo a dettare la strada da seguire. Ho scritto moltissimi testi in inglese e bambara (la lingua e l’etnia cui appartiene la Traorè, ndr) e poi li cantavo, il mio lavoro è stato soprattutto di songwriting.
Anche qui le indicazioni di Toni sono state fondamentali, non volevo tradire il senso delle sue parole, il cuore della sua visione del personaggio scespiriano. La musica nel senso di combinazione dei suoni è scaturita direttamente dal testo di Toni. Dopo aver composto le canzoni ho coinvolto la band così come la vedete sul palco. Le due voci femminili del coro sono giovani cantanti mie allieve Fatim Kouyatè e Bintou Soumbounou che si sono formate nella Fondation Passerelle da me diretta in Mali. Mi sono subito sembrate le voci più adatte da coinvolgere in questo progetto. Mamadyba Camara che suona la kora collabora con me alla Fondazione dal 2010 ed è uno dei più grandi interpreti di questo strumento, è il figlio di una delle voci principali dell’orchestra nazionale del Mali. Mamah Diabatè che suona lo ngoni (un cordofono, simile al banjo,ndr) è con me da più di 10 anni ed è presente in tutti i miei album.

Da tempo sei un’artista riconosciuta nel mondo perché hai deciso di restare in Mali, un paese che non offre opportunità come per esempio la Francia, la tua seconda patria?

Innanzitutto il piacere di formare dei musicisti nei quali credo, capaci e intelligenti e che sono convinta possano trovare lavoro grazie alle loro qualità di artisti. Nonostante negli anni la musica maliana si sia imposta al di fuori dei confini nazionali resta il fatto che i musicisti maliani non riescono a diventare dei professionisti. Non solo perché il nostro mercato discografico è insufficiente ma anche perché le occasioni di suonare dal vivo sono poche ed il circuito è troppo intermittente e disorganizzato. Alcuni leader e organizzazioni di cooperazione internazionale sono convinti che sia fondamentale creare delle opportunità di lavoro attraverso la musica perché la nostra musica è una delle più raffinate e ricche dell’Africa occidentale e rappresenta una reale opportunità di crescita.
Ho vissuto molto tempo fuori, in Francia e non solo. 5 anni fa ho deciso di rientrare per seguire il mio progetto con la fondazione. Insegno lì e non mi è possibile farlo risiedendo in un altro continente. Ma in verità non sono mai stata lontana dal Mali per periodi lunghi, ho la cittadinanza francese e mi sento completamente francese così come sono completamente maliana. Ora che la mia casa è finita ho deciso di trasferirmi definitivamente lì. Il Mali ha bisogno di me più di quanto ne abbia bisogno la Francia, sento di dover restituire qualcosa al mio paese e di essere in grado di farlo. Il Mali è un paese magnifico se non consideri che siamo nel bel mezzo di una guerra. Ci sono tante cose da scoprire e noi tutti abbiamo una grande responsabilità nel ricostruire un paese in parte distrutto e in gran parte mai costruito in termini moderni. È un luogo ricco di cultura e soprattutto di tradizioni musicali anche quando la guerra il cui fronte principale è nel nord del paese si è spinta a sud vicino casa mia, non ho mai pensato di andar via. Lì ci sono i miei amici, la mia famiglia, i miei progetti. Sono fermamente convinta che dobbiamo fare qualcosa per arrestare il conflitto ed è per questo che dico che il Mali ha bisogno di me.