Collaborazionista, traditore dell’Avanguardia… Nell’arte del Novecento il caso forse più clamoroso e controverso di ‘sfortuna’, anzi di vera e propria disdetta, resta André Derain, a fronte della sua centralità non solo nel momento fauve accanto a Matisse, e in quello paracubista vicino a Braque e Picasso (dove si staglia, secondo il felice attributo di Gertrude Stein, quale «Cristoforo Colombo dell’arte moderna»), ma anche, dato ormai acquisito dalla critica più avvertita, nel momento ‘gotico’ o ‘bizantino’ 1911-’14, che apre alle varie fasi, del resto assai diverse, di ritorno alla tradizione, fino agli estremi anni cinquanta.
In una galleria parigina, un giorno del ’36, Diego Giacometti si «bloccò», «colpito in modo assolutamente nuovo», dinanzi a «tre pere su un tavolo contro un immenso sfondo nero», esempio minore ma sublime del classicismo freddo, di poco pigmento e magiche trasparenze, adottato da Derain negli anni trenta. Giacometti ricorda quella fulgurazione, tre anni dopo la morte triste e solitaria di Derain, in un breve saggio del ’57, che si impone come la scena primaria di una linea interpretativa, decisamente marginale, tesa a riscattare la produzione entre-deux-guerres dell’artista dall’addebito di facilità ed eclettismo nel recupero degli antichi maestri. Questa diserzione, in gran parte presunta, dagli ideali sperimentali di gioventù, e le sue eventuali implicazioni psicologiche, si intrecciano forse a un certo punto, nell’imputato Derain, alle note ragioni politiche, cioè l’accusa, vedremo quanto ingiustificata, di simpatie naziste? È questione tuttora aperta e fitta di implicazioni.
Colpo di fulmine per Sorel
Almeno tre occasioni relativamente recenti – la monumentale biografia di Michel Charzat André Derain. Le titan foudroyé (Hazan, Parigi 2015), la mostra Derain Balthus Giacometti. Une amitié artistique al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris (2017) e l’altra A. D. 1904-1914, la décennie radicale al Centre Pompidou (2017-’18) – giustificano la riapertura del dossier-Derain, e noi, per farlo, siamo venuti a Parigi, in una bella e spaziosa casa borghese nel Diciassettesimo, tra Rome e Villiers, dove vive, già figura di spicco del socialismo francese, stimolante nella sua sanguigna propensione alla ‘dissidenza’, «basata, in particolare, sul colpo di fulmine giovanile per i testi di Georges Sorel», appunto Michel Charzat, recente biografo dell’artista di Chatou. Ci accomodiamo nello studio: biblioteca di storia dell’arte ordinata, quasi tirata a lucido, con un incasso decorato (è la parola) da una grande tela di Ker Xavier Roussel, il più pagano dei Nabis. Per cominciare chiedo a Charzat di chiarire, alla luce delle sue recenti ricerche, il rapporto fra Derain e il nazismo, che tanto ha pesato nel destino anche postumo dell’artista. Introduco l’argomento raccontandogli di essere rimasto stupito, recentemente, in un incontro con Jim Dine, l’artista americano, quando, riferendomi alla mostra di Derain al Centre Pompidou, egli ha avuto un vero e proprio scatto: «c’è un problema: era fascista!». Charzat risponde di non sorprendersi, che «è una reazione ancora oggi molto diffusa fra le persone cólte», nonostante risulti ormai ben chiaro che non di collaborazionismo si trattò, ma della «debolezza» di un uomo preso in un «ingranaggio», che lo portò ad accettare, «deplorevolmente», nel novembre 1941, di partecipare al viaggio in Germania organizzato dalla propaganda nazista, insieme a diversi colleghi, tra cui Friesz, Segonzac, van Dongen, Vlaminck.
«L’art de la défaite»
Per fare ulteriore luce sulla circostanza, Charzat è partito dal lavoro di Laurence Bertrand-Dorléac, che studiando le relazioni degli artisti francesi con gli occupanti nazisti (L’art de la défaite 1940-’44, Seuil, Parigi 1993) «aveva cominciato a mettere un po’ d’ordine in questa storia». Ha poi incrociato le conclusioni di quel libro con le notizie tratte dai suoi personali affondi negli archivi della famiglia Taillade, erede di Derain, e di Paul Landowski, scultore e direttore dell’École des Beaux-Arts di Parigi, che dirigeva la delegazione degli artisti francesi in Germania. «Ne ho avuto la conferma dell’ingranaggio, della trappola. Tutto ruota, si sa, intorno all’occupazione e devastazione, procurata dai nazisti, della villa Roseraie di Derain a Chambourcy, vicino Saint-Germain-en-Laye, nell’ovest di Parigi. Derain era fuggito nei Pirenei, alla frontiera spagnola, e quando, nell’ottobre del ’40, torna a Chambourcy e trova la casa in quello stato, ne è sconvolto. Intende recuperarla, denuncia, peggiorando la sua situazione. Bisogna anche considerare che i nazisti, nel 1940, erano entrati in una fase di seduzione, interessati a stabilire rapporti di convenienza con figure di spicco della cultura francese, e certamente con un maestro riconosciuto come Derain, che per di più, al pari di Segonzac, portava il merito di essere un veterano della Grande Guerra. Fanno pressioni perché ritiri la denuncia, arrivando a minacciare il lager, date le sue frequentazioni dei pittori ebrei di Montparnasse, e lui la ritira. Poi cominciano a blandirlo, anche attraverso la sirena greca Demetra Messala, moglie dello scultore di Hitler Arno Breker, che era stata una delle modelle di Derain (e anche di Picasso), la quale – “diabolicamente astuta”, dirà l’artista – cerca di convincerlo a recarsi in Germania, ospite del marito. Derain nicchia, fa finta di non capire, ma alla fine ci casca».
Il grande regolatore
Al ritorno dal viaggio in Germania, e negli eventi a seguire, si trova sempre più isolato dalla comunità artistica, e gli antichi compagni dell’avanguardia, Picasso e Matisse, si mostrano freddissimi (non Braque). Da essi, del resto, Derain si era già divaricato artisticamente, con il suo insistito e maniacale ritorno al museo, la ricerca di un nuovo equilibrio (da cui l’appellativo di André Salmon «grande regolatore»), che peraltro, dalla metà degli anni venti all’inizio dei trenta, gli avevano procurato onori mondani e successo economico: la Bugatti, lo yacht «Le Thamous», il castello di Parouzeau nella Seine-en-Marne. Chiedo a Charzat se l’imporsi di Derain come caso a sé fra le due guerre, il suo distanziarsi dal coté progressista, non abbia in qualche modo contribuito a farlo cadere nell’ingranaggio. «Non così tanto. Non bisogna dimenticare che nel 1938 Derain firmò, insieme a Picasso, Kandinsky, Max Ernst…, l’appello anti-nazista in favore degli artisti tedeschi perseguitati. E inoltre che una parte della sua produzione era stata considerata in Germania “arte degenerata”. In una recente asta americana (Sotheby’s, New York, 15 maggio 2018, ndr) è transitato un paesaggio di Derain del 1912, La Vallée du Lot, proveniente dal MoMA, che era stato venduto nel 1939 dai tedeschi in Svizzera. Come si sa, usavano l’arte delle avanguardie per fare cassa. Derain, dunque, era fra i “degenerati”».
Il discorso però si complica se, come è notorio, diversi dignitari nazisti non erano così insensibili all’arte moderna, in particolare francese, e Derain… «Derain era apprezzato soprattutto da Frau Ribbentrop, che nel 1937 aveva posato per la stampa davanti a un dipinto dell’artista, che faceva mostra di sé nella sontuosa villa dei Ribbentrop a Dahnsen, e questo proprio nei giorni in cui altre opere di Derain subivano il ludibrio nella mostra di Monaco sull’arte degenerata. Certo, fra i cultori nazisti veniva apprezzato soprattutto il Derain del retour à l’ordre, non quello fauve o cubista: in questo senso era un pittore più accettabile di Picasso, o di Braque. Ribbentrop cercò di convincerlo a fare il ritratto ai suoi figli, lo invitò a passare l’estate nel castello di famiglia in Tirolo, ma l’artista rifiutò. Disse di no a Ribbentrop, ma poi fu costretto a cedere alle manovre degli uomini di Goebbels, che lo spinsero a fare il disgraziato viaggio in Germania. In una celebre fotografia di gruppo, scattata alla Gare de l’Est prima della partenza, egli cerca di nascondersi dietro ai compagni di viaggio e agli ufficiali nazisti, mostra tutto il suo imbarazzo, già sembra capire, come dirà nel dopoguerra, di essere stato “coglionato”». In Germania Derain era dunque uno degli artisti francesi più conosciuti. «Sì, la sua opera era penetrata soprattutto per merito di Kahnweiler, il suo primo mercante, di origini tedesche – a cui subentrò, nel 1924, Paul Guillaume –, e della galleria di Alfred Flechtheim».
Respingendo l’accusa di collaborazionismo a Derain, Charzat sembra volerne fare una specie di capro espiatorio: gliene chiedo ragione. «Nel secondo dopoguerra, abbandonato da tutti, egli riceve il sostegno spassionato di Pierre Lévy, il grande industriale della maglieria, e grande collezionista di arte francese (con un amore singolare per la jeune peinture degli anni venti e trenta, ruotante infatti attorno a Derain), il quale, mettendosi completamente a disposizione dell’artista, rileva, nei suoi confronti, il ruolo che aveva avuto, fino alla sua morte nel ’34, Paul Guillaume. In quanto ebreo, Lévy, con la famiglia, aveva rischiato di cadere nelle mani della Gestapo: come poteva, subito dopo la Liberazione, diventare amico di un artista in odore di nazismo? Una prova in più che Derain non può assolutamente annoverarsi fra i collaborazionisti… Ho avuto modo di parlare con Edmonde Charles-Roux, la scrittrice, che a Derain fu molto vicina. “Quell’uomo, mi ha detto, era stato un soldato per cinque anni, aveva affrontato coraggiosamente le durezze incredibili della Grande Guerra, non amava la politica, la scansava ed era molto ingenuo, quasi naif: quell’uomo, che non aveva mai preso una posizione politica, salvo nel ’38 contro Hitler, è stato infamato senza aver fatto niente”. Io dico: certo, ha avuto le sue colpe, perché è stato talmente umiliato da non capirci più nulla. Ma quanta sproporzione nel ridurlo a ricettacolo di tutte le viltà della professione! E questo perché era molto noto, aveva “tradito” l’avanguardia, diceva cattiverie contro i colleghi, era cólto e intelligente. Tutto ciò ha fatto sì che l’indignazione e il patriottismo esacerbato dei francesi si indirizzassero contro di lui: dunque sì, un capro espiatorio».
Picasso, mito politico
E come leggere la sua vicenda in relazione alla mitizzazione politica di Picasso? «Intanto gli artisti, in Francia, non sono stati dei grandi resistenti, al contrario dei ferrovieri. Picasso, durante l’occupazione tedesca, non fece nulla di cui pentirsi davvero, ma non bisogna dimenticare che godeva di una sorta di protezione da parte, di nuovo, di Arno Breker, lo scultore nazista, a cui era molto legato Cocteau, che di Picasso era grande amico. Sono cose risapute, come anche il fatto che ogni mese Picasso – certo, costretto, per proteggersi, perché aveva preferito rimanere a Parigi – riceveva una delegazione di ufficiali tedeschi in uniforme, che si facevano fotografare insieme a lui. E poi i suoi contatti con Martin Fabiani, mercante d’arte che trafficava con i tedeschi, il quale, nel ’43, gli vendette un paesaggio del Doganiere Rousseau trafugato – ma Picasso non lo sapeva – a una famiglia ebrea, alla quale subito lo restituì dopo la Liberazione. Tutto questo per dire di un rapporto opaco, complicato, degli artisti con gli occupanti, i quali cercavano di irretirli attraverso mosse calcolate: un quadro fatto di mezze verità, che non giustifica la polarizzazione Derain-Picasso a cui si è assistito dopo la guerra, con Derain il vile, l’ambiguo, e Picasso, abbastanza immotivatamente – per quanto avesse dipinto Guernica – eroe della resistenza intellettuale contro il nazismo».
«La condanna di Derain fu solo di tipo morale, salvo la proibizione, da parte del Comité National des artistes, con un verdetto dell’aprile ’46, di esporre nei Salons per un anno». Qui Charzat recrimina, con foga: «Doveva rispondere, discutere, invece si è rintanato come un animale ferito. È tornato alla Roseraie e ha tagliato i ponti con tutti, a parte pochi amici. Alle insinuazioni e alle accuse ricorrenti non ha voluto reagire, era talmente disgustato… è stato orgoglioso, altero, un po’ bête, non furbo». Il ritratto è patetico: possiamo siglarlo con la frase detta da Derain, all’indomani dell’interdizione professionale, in un’accesa conversazione con Landowski: «Mi impediscono di esporre nei Salons? Ho rifiutato di esporvi dal 1908. Sono trentotto anni che mi sono epurato da me stesso».
Dubbio e inattualità
Auto-epurazione! Qui parla l’artista del dubbio, del trouble moderne sotto la cui insegna Suzanne Pagé volle presentare Derain nella mostra, a oggi la più completa a lui dedicata, del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 1994-’95. L’‘inattualità’ della pittura, avvertita da Derain con una sensibilità da serpente, fu il suo tormento e la sua giustificazione, tanto che Philippe Dagen, nel saggio del 1987 Derain, doute, dépit, poté stabilire il parallelo con Duchamp, che oggi non sembra più così avventuroso. Che ne pensa Charzat? «La pittura era diventata una lingua morta ma ciononostante Derain continuò a dipingere, al contrario di Duchamp. Entrambi, a loro modo, hanno constatato, con anticipo, l’esaurimento dell’avanguardia permanente, e Derain si è rifugiato in questo esaurimento per cercare di rigenerare la pittura attraverso la tradizione». Mai perdendo di vista, in ogni caso, che la pittura è ormai, appunto, un fossile, pena… «Sì, ma non smette mai di cercare quelli che chiama “i segreti smarriti dei grandi maestri”. La sua arte è totalmente incontrollabile, inclassificabile, e in questo, attenzione!, è prossimo a Picasso: i risultati sono diversi, ma la démarche intellettuale è la stessa. La pittura come qualità, questo è il problema di Derain e il suo dramma, perché sa che non più dipingere come Raffaello, neanche come Courbet. È finita. Tuttavia, qualche giorno prima di morire, dice di aver capito: “ho visto Le petit pont di Corot e ho capito che cos’è la pittura!”. La ricerca ossessiva e continua ne fa un grande artista, intramontabile, senza data, che si ispira tanto agli etruschi e ai primitivi italiani (i Lorenzetti) e francesi (Fouquet) quanto a Braque e Picasso, così come, negli anni cinquanta, persino a Dubuffet. I francesi, che sono cartesiani e amano le classificazioni, non capiscono come un pittore possa fare tutto e il contrario di tutto».
Spunta allora la formula: eclettismo! «Sì, Picasso è accolto come un genio – è evidente che lo sia stato! – perché distrugge e ricostruisce a modo suo. Al contrario Derain, che si è preso la responsabilità di non distruggere, è accusato di eclettismo, esaurimento, facilità, arcaismo…». Non solo: sembra di capire che la sfortuna in cui è caduto abbia finito per coinvolgere, sul piano critico, anche la prima stagione, quella di rottura: non il fauve, ma sicuramente il cézanno-cubista della fase 1908-’12. «Infatti da noi in Francia il contributo di Derain alla nascita del cubismo non è per niente pacifico, è tuttora fonte di discussione. Si pensi soltanto alla sua indubbia precedenza, decisiva per il cubismo, nella scoperta delle arti extraeuropee. È lui che nel 1906 ha individuato il valore plastico degli oggetti d’Africa e d’Oceania, prima considerati solo come feticci: basta leggere le lettere da Londra a Matisse e Vlaminck sulle sue visite alla sezione etnografica del British Museum, dove spiega con grande chiarezza come l’arte negra possa rigenerare lo sguardo, purificarlo da un accumulo centenario di immagini. Nello Statens Museum for Kunst di Copenhagen c’è una grande sala dedicata ai tre inventori del cubismo: Derain, Picasso, Braque. Un’evidenza che i francesi per tanto tempo hanno stentato ad accettare. Io, nel mio piccolo, l’ho rilanciata, e così la recente mostra del Centre Pompidou, curata da Cecile Debray». Mostra affascinante, che però è parsa un po’ rattrappita, sul finale, nel ridurre la portata del momento ‘gotico’ di Derain, il suo solitario ed esoterico sganciamento dall’avanguardia già ben prima della guerra. Anche qui sembra pesare ancora un certo pregiudizio, come se si trattasse dell’inizio della fine, dell’avvio di un processo che condurrà, negli anni venti e trenta, al reazionario. «E invece si tratta del periodo più importante di Derain, anche quanto a influenza sugli sviluppi del dopoguerra: Metafisica, Realismo magico, Nuova Oggettività se ne nutriranno all’insaputa dei francesi, i quali non potevano immaginare che Derain fosse l’elemento scatenante di una poesia non francese, ma italiana e tedesca. E ancora oggi gli risulta difficile mandarlo giù: gli intellettuali francesi continuano in gran parte a essere disciplinati da un pensiero magico inscritto nel sistema ideologico dell’avanguardia, che impedisce loro di vedere l’altra realtà, quella di Derain».
Ma si sono fatte luce, negli ultimi anni, alcune controtendenze, proprio sulla linea di una modernità altra, fatta di dubbio e malattia, di ricerca tra i fantasmi del passato, percorsa da strani fuochi: per esempio, la mostra, fortemente voluta dal direttore del Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris Fabrice Hergott, e diretta da Jacqueline Munck, Derain Balthus Giacometti. Une amitié artistique… Spieghiamola, questa amicizia. «Hergott è un appassionato di Derain, ma ancora nel 2014, si figuri, gli riusciva difficile esporre, a chiare lettere, la sua produzione più contestata, dalla metà degli anni venti in qua. Attenzione, contestata già all’epoca, quando si diceva “è bravo, ma troppo tradizionale”, “dipinge troppo”, “guadagna molto”. C’è sicuramente del vero, la sua pittura diventò discontinua, con quadri meravigliosi e altri meno, per esempio i ritratti mondani. Tuttavia, proprio in quel momento, due giovani artisti, Balthus e Giacometti, prendono contatto con Derain e lo eleggono a loro vero maestro. Come mai due figure in Francia tanto ammirate come Balthus e Giacometti hanno potuto cedere al fascino dello screditato Derain? L’abilità dei conservatori del museo è stata far passare il “ritorno all’ordine” di Derain attraverso i due giovani amici, così il pubblico francese ha potuto scoprire per la prima volta la sua stregata grandezza: quasi una rivelazione. Basta uscire dalle idee ricevute di un gauchisme culturale sclerotizzato per rimettere al centro Derain: e una nuova leva di critici, seri, più o meno quarantenni, si sta ormai facendo avanti su questa strada, piena di nuove scoperte».