«Israele agli israeliani, la città ai suoi abitanti». Sheffi Paz, leader del “Fronte di liberazione del sud di Tel Aviv” dalla presenza degli africani richiedendi asilo, ad ogni manifestazione di protesta urla questo slogan dentro il suo megafono. Una ventina di anni fa Paz era una pacifista, ora invece ripete che Israele «deve liberarsi dagli infiltrati, deve liberarsi da un pericolo che mette a rischio la sua esistenza e il suo carattere ebraico». Le sue parole hanno istigato migliaia di israeliani – quasi sempre a basso reddito, disoccupati o poveri – a scagliarsi contro eritrei e i sudanesi che fino a qualche tempo fa popolavano Neve Shaanan, Tikva e Shapira, i quartieri più miseri della città costiera israeliana. Oggi gli africani si vedono poco in giro, si nascondono. Temono le manifestazioni di rabbia organizzate da Paz e dalla sua giovane compagna di lotte, May Golan, una che davanti alle telecamere non esita a definirsi «razzista».

D’altronde un paio di mesi fa è stato lo stesso premier Netanyahu a legittimare la rabbia degli israeliani poveri contro i “mistanenim“, gli “infiltrati”, come il governo e la destra chiamano i migranti e i richiedenti asilo. «Molti di loro non sono rifugiati, è gente che cerca soltanto lavoro. Il governo restituirà i quartieri ai suoi residenti israeliani», promise il primo ministro durante un tour a sud di Tel Aviv con i ministri della pubblica sicurezza Gilad Erdan e della cultura Miri Regev. Un siluro lanciato contro la giudice della Corte Suprema, Miriam Naor, che si era pronunciata contro la detenzione oltre i 12 mesi degli africani clandestini e contro la loro espulsione con la forza verso i Paesi africani che si erano detti disposti ad accoglierli, in cambio di aiuti economici israeliani. Netanyahu ora crede di aver trovato la strada per aggirare quella sentenza.

I media legati alla destra e al governo ieri davano alta la notizia della soluzione trovata da Netanyahu per rimpatriare subito i richiedenti asilo, evitando i tempi lunghi della Knesset necessari per modificare la legge approvata nel 2014 volta a ridurre drasticamente il numero dei clandestini, stimato in 50.000. Sulla base di quella legge agli africani giunti dall’Eritrea, il Sudan e la Somalia, sono offerti 3.500 dollari in contanti se accettano di lasciare Israele volontariamente. Coloro che rifiutano invece sono detenuti nel centro di Holot nel sud di Israele, una sorta di prigione “aperta”. Sino ad oggi in 15.000 hanno lasciato Israele. Il governo da parte sua ha provato a deportare subito gli stranieri che rifiutano di lasciare volontariamente il Paese. Ma la giudice Naor e altri membri della Corte Suprema però si sono opposti ribadendo che potranno partire solo per i Paesi che accettano i migranti che lasciano volontariamente Israele. I giudici inoltre hanno stabilito che gli africani a Holot non potranno essere detenuti per più di dodici mesi.

Così non potendola ottenere in patria, Netanyahu la soluzione l’ha trovata a New York, nei giorni di settembre spesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il primo ministro, spiega l’agenzia di stampa dei coloni israeliani Arutz 7, ha rinegoziato con i leader africani (di Uganda e Ruanda) i termini dell’accordo di tre anni, in modo da consentire a Israele di deportare con la forza gli infiltrati. In sostanza, aggiunge da parte sua il giornale Yisrael HaYom, molto vicino a Netanyahu, in cambio di aiuti economici, i Paesi africani coinvolti si sono detti pronti ad accogliere quei migranti che rifiutano di lasciare volontariamente Israele. In questo modo è superato il divieto legale alle deportazioni con la forza per chi ora è a Holot. Nel frattempo Israele continua a costruire e a rendere impenetrabile la barriera eretta lungo il confine con l’Egitto che ha già ridotto drasticamente il numero degli “infiltrati” che attraversano il Sinai egiziano per raggiungere la porta sud di Israele.

«Non me ne vado, farò di tutto per rimanere qui. Se torno indietro mi ammazzano», ci dice al telefono Abdul, un giovane sudanese entrato clandestinamente in Israele tre anni fa e ora nascosto in un appartamento a Tel Aviv. «Non ho alcuna assistenza medica e per mangiare sono costretto a lavorare a nero. Ma so di avere diritto all’asilo politico, me lo spiegano proprio i miei amici israeliani», aggiunge. Una speranza e nulla più. Tra il 2009 e il 2015, riferisce il quotidiano Haaretz, i richiedenti africani hanno presentato alle autorità 3.165 domande di asilo. Sino ad oggi Israele ha accolto meno del 2% delle richieste. Per chi aveva creduto di trovare nello Stato ebraico un futuro migliore e una protezione dagli abusi subiti nel proprio Paese, il destino è un aereo diretto in Africa. Un viaggio di sola andata.