Quanta percezione avessero della resistibile ascesa del nazismo i cittadini democratici di Weimar e con quanta spensieratezza l’affrontasse la sua borghesia ebraica è meravigliosamente raccontato in un romanzo che nel tempo è diventato un classico e ha ispirato riduzioni cinematografiche e teatrali: Addio a Berlino di Christopher Isherwood (da poco ripubblicato dalla casa editrice Adelphi). Quanta inconsapevolezza e inconscio desiderio di allontanarsi dal ciglio del burrone su cui l’Europa tutta si trovava dovette esserci, se ancora alla vigilia di Capodanno del 1936 Otto Skall, grande fotografo ebreo nella Vienna degli anni ’20, e la seconda moglie Gusti scrivevano al di lui figlio dall’amata Costiera amalfitana: «Caro Heinz, questo è il luogo più bello, fa già caldo, caldissimo, i narcisi fioriscono sulle rocce e possono essere colti. La prima colazione si consuma sul balcone senza dover indossare il cappotto. Broccoli magnifici, salsiccia, provolone, mozzarelle e caciocavallo e tutto così a buon mercato da sembrare un sogno».

Non potevano prevedere, entrambi, fin dove si sarebbe spinto l’orrore, di lì a poco, e quali sarebbero state le conseguenze per loro. Appena due stagioni dopo, quando Heinz tornò a Vienna nella casa in cui era cresciuto si trovò ad arrivare in stazione, per un caso della storia, proprio mentre Hitler entrava trionfalmente in città, suggellando l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Un suo amico d’infanzia, arruolato nelle SS, aveva provveduto a sfrattare la madre Hela, come il padre Otto proveniente dalla città ucraina di Leopoli, dalla sua casa, costringendola a trasferirsi con il suo compagno in uno scantinato. Era la fine di marzo del 1938 e fu l’ultima volta in cui Heinz vide i suoi genitori. Da quel giorno ogni relazione sarà affidata a un epistolario che la moglie Rita ha tenuto in un cassetto per decenni e ora è raccolto in un libro pubblicato da un piccolo editore salernitano, Merlin: La lunga strada sconosciuta di Roberto Lughezzani.

Le vacanze a Positano

Il 27 luglio del 1940, quasi due mesi dopo l’annuncio di Mussolini dal balcone di piazza Venezia che l’Italia entrava in guerra, scrivendo da una Praga sempre meno rifugio sicuro per gli ebrei della mitteleuropa il padre Otto tornerà con la mente a quattro anni prima: «I giorni passati a Positano sono stati tra i più belli della mia vita e credo di capire perfettamente chi rinuncia a tutto per fermarsi a vivere per sempre in questi posti, per vedere sempre il mare e sentire l’aria profumata di rose e arance». L’amato entroterra salernitano, ironia della sorte, per gli Skall risulterà non solo un luogo dell’anima da ricordare fino alla vigilia di un suicidio deciso per sfuggire a un destino ancora peggiore, un’oasi di quiete mentre attorno infuriavano i marosi della Storia, ma anche un’ancora di salvataggio per il giovane Heinz.

La lettera paterna gli viene recapitata nel campo di internamento di Campagna, dov’era arrivato da una settimana, dopo essere stato arrestato a Bologna dove studiava. Il padre si mostra contento: «Conosciamo qualcuno dei paesi che si trovano nell’interno della provincia di Salerno e dunque possiamo immaginarci il luogo in cui ti trovi adesso. È qui che abbiamo visto la pasta essiccare all’aria, simile a un velo giallo. (…) Sono sicuro che la vita nel Meridione, che tu non hai conosciuto, ti farà un’immensa impressione, così come gli italiani del Sud». Il vescovo di Campagna è Giuseppe Maria Palatucci. Sarà lui, nel dopoguerra, a creare l’aura del «fascista buono» attorno al nipote Giovanni. Una leggenda, quella dello «Schindler italiano» che, da responsabile immigrazione alla prefettura di Fiume, avrebbe salvato migliaia di ebrei, nei mesi scorsi messa in discussione dal centro Primo Levi di New York.

L’«internamento libero»

Grazie a una provvidenziale tromboflebite a una gamba, Heinz Skall riuscirà a ottenere l’«internamento libero» in un comune qualche decina di chilometri più a sud: Sala Consilina. Proprio qui, nella piazza principale del paese, nel 1922 Giovanni Amendola aveva pronunciato uno storico discorso nel quale, invitando i fascisti a venire allo scoperto, aveva sostenuto che il Mezzogiorno avrebbe costituito un fattore di equilibrio contro le peggiori derive che si intravedevano all’orizzonte. A vent’anni di distanza, in quella stessa piazza si ritrovano confinati politici e deportati ebrei, e Heinz stringerà amicizie che gli saranno molto utili in seguito. Quella di Alberto Corti innanzitutto, un medico antifascista torinese che, dopo l’8 settembre, lo aiuterà a nascondersi a Cogne, in Valle d’Aosta. E poi l’ex deputato liberale toscano, anch’egli di origini ebraiche, Dino Philipson, inviato alle Tremiti «finché campa» da Mussolini in persona perché si era opposto alle leggi razziali e in seguito spostato a Sala Consilina.

È il novembre del ’41 e le nubi sull’Europa si fanno sempre più nere. Da Vienna e da Praga i genitori inviano lettere sempre più terribili e affettuose, in cui notizie tragiche convivono con appelli materni a «riguardarsi», segnalazioni paterne di libri da leggere e apprezzamenti per i disegni che il figlio invia loro.

A Sala Consilina Heinz è relativamente libero. Non può uscire dal paese ma gira liberamente, è sottoposto solo a un controllo giornaliero. Affitta una stanza nel punto più alto del centro storico, al numero 8 di via Cesare Beccaria, dal cui terrazzo – racconta in una lettera – si gode di una «magnifica vista» sulla vallata. Nel palazzo Amodio vivono un’altra coppia di internati, gli ebrei polacchi Szia e Mia, le due figlie del proprietario di casa e Rita Cairone, una giovane insegnante di tedesco della quale ben presto il giovane ebreo si innamora. Va normalmente a far la spesa al mercato e per un periodo trova persino lavoro, come assistente disegnatore al locale consorzio agrario.

Mentre il dramma familiare esplode in tutta la sua drammaticità, Heinz dipinge, incontra di nascosto Rita, che ha lasciato l’abitazione per non lasciar scoprire il fidanzamento proibito con un ebreo, dietro il cimitero, circondato da centinaia di ulivi secolari, e scrive lettere come quella inviata ai genitori il 15 gennaio del 1942: «In fondo amo la solitudine nella mia bella stanza con il balcone, volta verso il meridione, che ora ha potuto essere arredata a mio gusto e che mi diventa sempre più cara».

Sala Consilina non è la Gagliano di Carlo Levi, ma l’ambiente contadino e la vista dal terrazzo del bel palazzo nel punto più alto del centro storico ricordano le atmosfere del Cristo si è fermato a Eboli. Inoltre, Heinz Skall immortala Rita Cairone ma soprattutto dipinge, come l’intellettuale ebreo antifascista confinato in Lucania. Dalla corrispondenza con i genitori si intuisce che molti disegni furono inviati al padre e molto probabilmente sono andati perduti nella tragedia che devastò la famiglia Skall.

Il sud immobile

Mentre l’amato figlio vive la sua passione amorosa con Rita e quest’ultima, dopo la scoperta della sua relazione proibita, perde il posto di insegnante e viene spostata ad Amalfi, si consuma il dramma familiare e quello degli giudei d’Europa. Nel susseguirsi delle epistole si legge l’asimmetria con cui il fuso orario della Storia mosse le sue lancette. All’immobilità leviana del Mezzogiorno contadino si contrappone nel resto del continente una tragica accelerazione degli eventi, che si abbatteranno come un tornado sulla famiglia Skall. Heinz viene prima a sapere della morte per infarto di Willy, il marito della madre Hela. «Probabilmente è stato fortunato, perché solo Dio può sapere che destino gli è stato risparmiato. Oggi gli incubi più tremendi sono diventati realtà», scrive il padre il 19 gennaio 1942, quando appena un anno prima ancora si compiaceva perché il figlio leggeva Shakespeare in tedesco e raccontava i suoi ultimi lavori fotografici: «Ho avuto da fare delle riprese interessanti in quest’ultimo periodo. L’abitazione di una signora della più alta nobiltà, (…) ho fotografato anche un bambino di tre anni, un piccolo San Giovanni, delicato, sottile, con uno sguardo pieno di fuoco, occhi chiari con ciglia scure, una magnifica testolina ricciuta».

Quattro giorni prima, Heinz aveva scritto al genitore: «La mia disperazione è altrettanto grande, perché mi sento del tutto impotente di fronte a questa nuova e imprevedibile situazione. (…) Per quanto riguarda la mia vita qui a Sala Consilina, non posso che darvi ancora buone notizie (…) Di mattina devo provvedere alla spesa e di sera devo prepararmi la cena. Studio, scrivo, leggo, disegno, ma pochissimo e non ho ancora dipinto nulla». Le buone notizie di Heinz non arriveranno mai a destinazione: la lettera verrà rispedita indietro con la burocratica dicitura di un burocrate praghese: «Destinatari deceduti per propria decisione». Gusti, la compagna, si era suicidata il 23 gennaio, il padre Otto il giorno successivo, appena cinque giorni dopo aver scritto l’ultima lettera al figlio.

L’ultimo viaggio

E la mamma? Quando non riceve più notizie da Praga, teme che anche Otto e Gusti «abbiano dovuto affrontare il viaggio che credo non verrà risparmiato a nessuno». L’ultima lettera ad Heinz è del 18 marzo 1942, venti giorni prima di esser messa su un treno diretto al campo di Izbica. Pochi mesi dopo, il 5 luglio, ad Heinz ritorna indietro anche l’ultima lettera inviata a lei. Questa volta è risparmiata anche la motivazione burocratica. La «lunga strada sconosciuta» di cui parlava Hela in un’altra lettera è arrivata al capolinea, a causa degli stenti o in una camera a gas. L’unico che riuscirà a percorrerla tutta sarà Heinz: nel gennaio del ’43 riesce a farsi mandare in internamento a Bologna, dopo l’8 settembre si costruisce un’identità fasulla e si nasconde sulle Alpi, a 1.500 metri di altezza. Quando i nazisti arrivano fin lassù si aggrega a una banda partigiana e supera il confine francese. In Francia farà l’operaio in una fabbrica di scope e sarà arrestato per aver fornito false generalità, sospettato di legami con gli antifascisti detenuti a Lione, tra cui il professor Corti conosciuto durante il confino. Rientrerà in Italia alla fine della guerra: il 14 ottobre del ’45 è a Salerno, dove troverà lavoro come interprete presso il Comando Alleato della 766esima compagnia. Il 18 febbraio 1946 si sposa con Rita Cairone, l’insegnante di tedesco conosciuta a Sala Consilina. Si conclude qui una storia di guerra, amore e resurrezione in un secolo di grandi tragedie, che parla da vicino a un’Europa che ha forse dimenticato quanto rapida sia stata l’escalation dell’orrore e l’errore compiuto nel non aver spento l’incendio quando ancora lo si poteva fermare.

Sull’apatia politica che consentì all’orrore di farsi storia il pastore Martin Niemoller ha scritto una celebre poesia: «Quando sono venuti a prendere gli ebrei sono rimasto in silenzio perché non ero ebreo (…) quando sono venuti a prendere me/non c’era più nessuno che potesse parlare per difendermi».