Si è aperto ieri con un colpo di scena e con un nuovo giudice monocratico che ha preso il posto del precedente, astenutosi perché ex carabiniere, il processo agli otto militari dell’Arma accusati di aver nascosto la verità sulla morte di Stefano Cucchi e di aver falsificato documenti per depistare le indagini. Un piano messo in atto secondo l’accusa almeno in tre occasioni, nel 2009, nel 2015 e nel 2018, ed evidentemente ben riuscito, visto un inutile processo durato anni contro tre innocenti poliziotti penitenziari, mentre venivano tenute nascoste le violenze perpetrate dai due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro (condannati in primo grado per omicidio preterintenzionale) sul giovane geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo in ospedale.

MA ORA che la verità si è fatta largo durante il processo bis e che il pm Giovanni Musarò ha scoperchiato il verminaio nella catena di comando che arriverebbe fino ad un generale, davanti alla giudice Giulia Cavallone della 7° sezione penale il procedimento appena aperto ha già assunto una nuova prospettiva, con i due imputati di grado più basso che accusano altri due imputati di rango più alto di aver impartito loro ordini contrari alla legge.

INFATTI, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca comandante della stazione di Tor Sapienza, e il carabiniere Francesco Di Sano, che in quella caserma durante la notte ebbe in custodia un Cucchi già dolorante e con la schiena spezzata dal pestaggio subito dai carabinieri della stazione Appia, hanno chiesto di costituirsi parti civili nei confronti del maggiore Luciano Soligo (a quel tempo comandante della Compagnia Montesacro dalla quale dipendeva Tor Sapienza) e del colonnello Francesco Cavallo (nel 2009 tenente colonnello, capoufficio del comando del Gruppo Roma) che li precedono nella scala gerarchica.

Come ha riferito in aula il loro difensore, Labriola e Di Sano accusano Soligo e Cavallo di aver ordinato loro la rettifica dell’annotazione di servizio sulla condizione di salute di Cucchi: «Non sapevano del pestaggio – ha detto l’avvocato Giorgio Carta – Colombo Labriola non hai mai incrociato Cucchi e venne estromesso dalle operazioni perché Soligo si presentò in caserma e diede ordini direttamente ai carabinieri che avevano redatto il documento. Quanto a Di Sano, era in partenza per la Sicilia ma fu contattato da Soligo affinché prima eseguisse la modifica richiesta. Col senno di poi, ora capiamo l’insistenza dei superiori, ma all’epoca non sapevano nulla. Se non avessero eseguito quell’ordine sarebbero incorsi in un reato militare».

Colombo Labriola e Di Sano si sono seduti sul banco degli imputati ed hanno ascoltato l’intera udienza, insieme ad altri due degli accusati, il capitano Tiziano Testarmata, comandante della IV sezione del nucleo investigativo, e il colonnello Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo. Non erano invece presenti il generale Alessandro Casarsa, nel 2009 comandante del Gruppo Roma, Cavallo, Soligo e il carabiniere Luca De Cianni accusato di calunnia nei confronti di Riccardo Casamassima, il primo militare ad aver rotto il muro di omertà.

ALLA PROSSIMA udienza, fissata per il 20 gennaio, la corte scioglierà la riserva sull’ammissione delle parti civili che, oltre alla famiglia Cucchi e ai tre agenti penitenziari, è stata richiesta anche da Casamassima, dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dai ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia, e dalle associazioni Antigone e Cittadinanzattiva. I tre poliziotti penitenziari tramite i loro avvocati hanno però citato il ministero della Difesa, come responsabile civile dei danni subiti, «in quanto organo di riferimento dell’Arma dei carabinieri».

Un processo, insomma, che mostra già alle prime battute le contraddizioni di un sistema, di un corpo che risponde a regole e gerarchie militari ma che ha funzioni di polizia e si occupa di ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. È un po’ un peccato perciò che la giudice Giulia Cavallone abbia deciso di vietare le foto e le riprese video «perché – ha spiegato però – il diritto di cronaca viene già garantito dalla presenza dei giornalisti in aula».