Da sempre per Delphine de Vigan la memoria si intreccia con l’autobiografia, mutando e divenendo materia letteraria pura. Con Le gratitudini (Einaudi, pp. 150, euro 17.50, traduzione di Margherita Botto) il movimento tipico della letteratura di de Vigan slitta su tre voci, quella della protagonista Michka, una signora anziana che sta perdendo autonomia e con essa la lucidità necessaria alle parole, Marie che da Michka è stata in parte cresciuta e certamente salvata grazie al suo affetto e ai suoi consigli, e Jérôme l’ortofonista incaricato di rallentare la patologia degenerativa di Marie.

Il racconto si sviluppa così attraverso le tre voci, o meglio attraverso lo sguardo di tre figure che lentamente si ritrovano estranee eppure legate le une alle altre. La stessa Marie si estranea sempre più da se stessa fino a osservarsi come altra da sé. La memoria si riduce a una impressione, un’impronta comune, una traccia che è solo possibile intuire, il residuo di un luogo non più visitabile.
Resta così una narrazione per quadri, l’assenza di passato lascia e concede spazio a un presente privo di movimento, le giornate scorrono sempre più nell’apparenza di sensazioni fuggevoli, Michka perde contatto con se stessa e solo a tratti riesci a riconoscere Marie e Jérôme.

Al tempo stesso le vite di Marie e Jérôme restano impigliate nell’incontro con Marie e ne subiscono l’influenza modificandosi. Mentre la memoria si cancella, de Vigan mostra come si riproduca attraverso anche le relazioni che se ne fanno carico. Ciò che è stato riappare, nella vita degli altri facendosi vita propria in un legame inesauribile.