Una formazione di cinque motoslitte colorate avanza tra gli alberi di una montagna innevata sulle note ponderose di una composizione elettronica di Blanck Mass che avvolge il paesaggio di un senso minaccia. Il passatempo di una famiglia in vacanza riconfigurato davanti ai nostri occhi in qualcosa di alieno, misterioso e probabilmente nemico, Ted K evoca «la fine del mondo» a partire dalle sue prime inquadrature; e così facendo ci porta direttamente al cuore dell’immaginario di apocalisse che divora la mente del suo protagonista, Ted Kaczynski, detto Ted K., detto Unabomber.

DIRETTO dal regista del documentario Peter and the Farm, Tony Stone, Ted K è un film affascinante e molto insolito, miracolosamente in bilico tra l’osservazione e la soggettiva. Stone (che è anche cosceneggiatore) ha trovato il punto ideale per piazzare l’occhio della sua macchina – a cavallo tra la dimensione pruriginosa del true crime e l’empatia- e così raccontarci la storia del genio matematico (venne ammesso ad Harvard a 16 anni, dove completò un dottorato in tempi record) che lasciò una cattedra prestigiosa per andare a vivere in una capanna di tre metri per quattro, senza elettricità e acqua corrente, nel cuore delle Rocky Montains, e iniziare, via pacchi bomba, una personalissima battaglia contro il mondo, da cui risultarono tre morti, ventidue feriti e un intricato manifesto teorico .
«TED K» è girato nei boschi dove viveva Unambober, nei pressi di Lincoln, in Montana. Le parole del voice over sono quelle dei suoi scritti; le stesse che portarono all’identificazione di Kaczynski e alla sua cattura- dopo essere state riconosciute dal fratello quando il manifesto di Unabomber venne pubblicato sul «Washington Post», in cambio della promessa di smetterla con le bombe.

Insieme al magnifico paesaggio dello stato del «grande cielo» (allungato da un vivido cinemascope), il grande alleato di Tony Stone è il suo attore protagonista, Sharlto Copley, immerso in un’interpretazione così assorta da risultare ipnotica. Il volto scavatissimo, gli occhi scuri, costantemente all’erta come quelli di un animale nella foresta, Copley non opta per la full immersion da Actors Studio ma per una complicata alchimia di gesti controllatissimi, metodici (il quotidiano nella capanna, la costruzione delle bombe, le camminate in paese per telefonare o comprare provviste, i viaggi per gettare nebbia sul mittente del pacchi esplosivi), che fanno da involucro all’oceano di rabbia che gli sta dentro, e con cui sono perennemente in lotta.

LE MOTOSLITTE dell’inizio, sorprese come insettoni addormentati nel garage dei villeggianti, vengono fatte a pezzi a colpi d’ascia. Il ronzio assordante degli aerei che sorvolano la sua capanna la conferma del potere maligno della tecnologia. La cabina telefonica da cui chiama occasionalmente madre e fratello e che spesso gli porta via 25 centesimi, l’incarnazione del detestato capitale.

Sono scarse le interazioni tra Ted e «l’umanità». In paese probabilmente lo considerano un po’ fuori di testa ma inoffensivo (Stone cattura molto bene la qualità remota di quella parte d’America) -l’impiegato dei telefoni davanti a cui si presenta per protestare contro la cabina difettosa lo ascolta con gentile pazienza; lo sentiamo quando accusa sua madre di averlo spinto agli studi troppo presto e quindi di aver inibito per sempre i suoi rapporti con le donne; quando chiede soldi a suo fratello.

Ma per la maggior parte del film siamo soli con lui, dentro al suo mondo, che a tratti appare completamente folle e ad altri quasi plausibile. L’intelligenza di Stone, Copley e dei loro collaboratori sta nell’aver saputo dosare al punto giusto quell’esperienza.