Thierry Frémaux, il direttore artistico del festival, in una intervista pubblicata il giorno dell’inaugurazione sul quotidiano Libération alla domanda: «Perché il festival di Cannes è importante» risponde che qui viene presentato il 70 % dei film «maggiori» dell’anno. Una valutazione molto precisa del cartellone, concorso in testa, ma se poi quanto si è visto finora nella selezione ufficiale lascerà un segno nell’immaginario 2016 (come lo scorso anno è stato con Le mille e una notte di Miguel Gomes) non siamo sicuri – vale forse solo per la libertà magnificamente sacra di Alain Guiraudie. Ci si deve poi chiedere cosa si intende per maggiore: star, industria, sperimentazione, indipendenza, ricerca?
Però questo è il festival di Cannes, con la capacità rara di celebrare se stesso malgrado tutto, speculare alla celebrazione del cinema d’autore nazionale esaltato ogni volta con l’enfasi di una rivelazione.

L’altro giorno, per fare un esempio, la critica francese più di tendenza è letteralmente impazzita per Victoria, secondo film di una giovane regista, Justine Triet, il cui precedente La battaglia di Solferino era diventato uno dei titoli imperdibili della Croisette (lo avevano presentato nella selezione Acid). Victoria, che ha inaugurato la Semaine de la critique, è una commedia piuttosto tradizionale, basata su una scrittura molto evidente che gioca con malintesi, nevrosi, colpi di testa e di cuore, porte che glissano (metaforicamente) nella disordinatissima vita della nevrotica protagonista, avvocata con due figlie separata egocentrica e fragile affidata al biondo deciso di Virgine Efira, volto iconico della tv d’oltralpe passato al cinema – la vedremo anche in Elle di Paul Verhoeven.

14vissinaperturapiccolamaloute5-1459419957

È un po’ la stessa modalità che ha costruito intorno al nuovo film di Bruno Dumont l’aura del capolavoro, i «Cahiers du cinema» lo hanno eletto tra i film dell’anno ancora prima di vederlo. Ma se – a proposito degli interrogativi sul 70% del cinema mondiale di cui parla Frémaux – un film come Victoria ha un potenziale di pubblico, Ma loute, secondo titolo francese in concorso appare destinato al piacere (?) della cinefilia mondiale che adora il suo regista. Perché con Dumont funziona così, o amore incondizionato o irritabile affaticamento, almeno per primi titoli (L’Humanité)in cui il regista si divertiva a esibire la sua autorità (autoritarismo) nell’immagine di un assoluto spirituale fosse violenza, demenza, guerra, degrado.

Ora però qualcosa sembra cambiato e questo nuovo film somiglia più al precedente, la serie di successo – un milione e mezzo di telespettatori su Arte – P’tit Quinquin che era stata presentata alla Quinzaine, provocando molte critiche a Fremaux. Anche qui c’è un poliziotto dall’aria maldestra che una grassezza fuori misura rende ancora più goffo incaricato di investigare su un misterioso caso di persone scomparse. Lo accompagna un assistente piccoletto (coppia comica classica alla Stan Laurel e Oliver Hardy) al quale ricorre spesso per farsi rimettere in piedi quando rotola a pancia in giù. E c’è un paesaggio, il Nord della Francia ai primi del Novecento, con l’orizzonte che fugge verso il mare, in cui si muovono figure paradossali, crudeli, bestiali, e dove aleggiano paura e irriverenza. Questo crimine forse è seriale, della gente sparita rimane talvolta solo una traccia, come l’ombrellino giallo di una signora tondetta ma nulla di più.

Nel villaggio povero e sporco vivono i pescatori, i figli sono brutti e parlano in dialetto in modo incomprensibile, per loro la strada, il mare, la risacca, le sabbie vischiose sono fatica ma per quella signora elegante e un poco svanita (Valeria Bruni Tedeschi) è un paesaggio meraviglioso, lo scandisce alzandosi in piedi sull’automobile scoperta, mentre i pescatori arrancano carichi di sacchi. Borghesia industriale del nord, arrivano per la villeggiatura, la loro casa domina la baia e il mare.

https://youtu.be/rmVIcI65Vrc

Alto e basso, ricchi e miseri, l’industria promessa di modernità e le piccole barche destinate a scomparire. La famiglia dei pescatori divora carne umana e emette grugniti bestiali, ma cosa nasconde quella borghesia affettata e inebetita, che somiglia più alla nobiltà ghigliottinata e si sposa tra cugini, incesti obbligati dalle fusioni dei capitali come spiega il capofamiglia corpo comico di Fabrice Luchini? Tra mare e fango e bosco e palude i loro passi e i loro destini si intrecciano quasi inevitabilmente. Ma nulla è un caso in questo film che il suo autore definisce pazzo.

Per la sua versione della storia francese e del mondo umano l’ex professore di filosofia Dumont esaspera il grottesco (proprio come nella serie) a cominciare dalla lingua degli attori – tra i protagonisti c’è anche Juliette Binoche – quella dei borghesi comica nella sua pretenziosità come i loro gesti e i corpi ammalati di ipocrisia e perversione. E quella dei pescatori dura, tagliente, come le loro facce. Un accumulo però che finisce per saturare la proposta di messinscena, il respiro delle immagini costruite con precisione tra meravigliosi oggetti d’epoca e qualcuno all’improvviso levita e scompare lontano.

Dumont utilizza il cinema e la sua storia, compone le sue inquadrature seguendo l’iconografia del tempo, accumula dettagli e riferimenti, storia e poesia in quei corpi che però nonostante l’eccesso di performance mancano di carnalità. Figurine, segni, anche quando perturbano l’ordine sfiorandosi in questa convivenza forzata. Una storia d’amore tra il giovane pescatore cannibale e la nipote dei padroni di casa, ragazza bellissima che si veste da uomo, figlia segreta, figlia del peccato, maschio e femmina insieme, l’ermafrodita. Ma la geometria di quel mondo è così forte da digerire tutto.