«L’operazione è stata un successo, ringraziando Allah. Oggi controlliamo l’intero distretto. La sconfitta di Daesh è definitiva». Con aria sicura, così nel novembre 2019 ci aveva detto Shafiqullah Sadat, l’allora governatore di Achin, il distretto che include anche Mamand, la valle trasformata nella roccaforte della “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico che ha rivendicato l’attentato all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul di giovedì scorso.

Splendida e isolata, chiusa tra aspre montagne dalle cime innevate, la valle di Mamand si trova nella parte meridionale della provincia di Nangarhar, a pochi chilometri dal confine con le turbolente aree tribali pachistane. Territori remoti, difficili da raggiungere, a molte ore di strade sconnesse dalle prime cittadine. Terra di povera gente, di migranti, commercianti di oppio, contrabbandieri di minerali e pietre preziose. È qui che nel 2015 sono arrivati quelli che si presentavano come rifugiati dal Pakistan, ci spiegava Amin Hazimi, un malik e capo villaggio di Mamand Bagh, uno dei villaggi della valle. «Dicevano di scappare dal governo pachistano, di essere muhajerin, di aver bisogno di aiuto. Li abbiamo accolti, ma pochi mesi dopo abbiamo dovuto abbandonare il villaggio». Le case confiscate, i matrimoni forzati, le accuse di collaborare con il governo di Kabul, le punizioni esemplari, gli omicidi sommari. «Ci dicevano che non c’era alternativa al Califfato, ma in nome dell’Islam ci hanno tolto ogni libertà». Così si comportavano i militanti del gruppo arrivato in Afghanistan per intestarsi il jihad.

LA VALLE È IDEALE per i militanti. Si difende facilmente, è estesa e può ospitare campi di addestramento e depositi di armi. Punto strategico di transito per armi, combattenti, droga, il distretto di Achin è inoltre ricco di minerali e risorse naturali, tra cui talco, cromite e magnesite. In quest’area dell’Afghanistan è inoltre più diffuso che altrove il salafismo, alieno invece ai Talebani, di scuola deobandi. Quelli che si presentano come rifugiati sono un drappello di militanti. Provengono dalle “agenzie tribali” di Khyber, Orakzai e del Nord Waziristan, insieme agli afghani delle province orientali di Kunar e Laghman. Tra quelli che provengono dall’altro lato della Durand Line, ci sono diversi ex membri dei cosiddetti “Talebani pachistani”, militanti-mercenari che cercano un nuovo sponsor, trovandolo nello Stato islamico. Ai militanti locali si aggiungono gli “stranieri”. Fuori dall’ufficio dell’allora governatore del distretto di Achin ne vediamo diversi. Capelli lunghi, occhi scuri, volti scavati, gli uomini di Daesh hanno abiti consunti, molti le braccia fasciate o le stampelle. I poliziotti stanchi che li controllano dicono di non fidarsi, perché sono pericolosi anche se ridotti così.

SHAFIQULLAH SADAT, il governatore, siede a gambe incrociate nel suo ufficio, dove ci sono un letto, un armadio in legno, una serie di cuscini lungo le pareti dai colori pastello. Solleva un tappeto e ne estrae alcune pagine spiegazzate. È la lista dei jihadisti che si sono arresi, insieme a mogli e figli. «Più di 700 in pochi giorni», nota Sadat scorrendo la lista. «Ci sono afridi dai due lati del confine, afghani del Kunar, stranieri da Iran, Uzbekistan, Turkmenistan, Cecenia, India, più qualche arabo. La maggioranza però sono pachistani».

È LA FINE di novembre 2019. Quei militanti si erano arresi due giorni prima. Dopo una un’operazione militare di 7 settimane. Forze speciali americane e locali, uomini della Polizia di frontiera afghana e dell’esercito, bombardamenti aerei, forze di rivolta popolare, le milizie finanziate dai servizi segreti afghani in funzione anti-Daesh, spesso responsabili di abusi sui civili. A combattere contro i jihadisti dello Stato islamico ci sono anche i Talebani, che con quell’operazione contro un nemico comune segnano una svolta nei rapporti con Washington. Non è un caso che l’accordo bilaterale firmato a Doha arrivi pochi mesi dopo, il 29 febbraio 2020. In seguito a una simile dimostrazione di affidabilità, che i tubanti neri compiono per due motivi: per mostrarsi a fianco degli americani e per indebolire un antagonista pericoloso, proprio in vista dell’accordo con Washington, che non piace a tutti i militanti. «È vero, i Talebani hanno contribuito alla sconfitta di Daesh», ci diceva allora Attaullah Khogyani, il portavoce del governatore di Nangarhar, che però negava quel coordinamento operativo che oggi invece Washington chiede ai Talebani nella difesa dell’aeroporto di Kabul, per le ultime evacuazioni.

ALLORA LA SCONFITTA della “Provincia del Khorasan” sembrava definitiva, tanto che il presidente Ashraf Ghani – l’umo fuggito dal palazzo presidenziale di Kabul prima della conquista dei Talebani – aveva raggiunto Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, e si era esibito in un discorso di fiera rivendicazione del successo ottenuto. Chiedendo ulteriore sostegno da parte della comunità internazionale. Parole simili aveva usato circa due anni prima un altro presidente, Donald Trump. Che il 13 aprile 2017 ha autorizzato l’uso della più potente bomba non nucleare mai usata in combattimento. Undici tonnellate su un complesso di tunnel e cave proprio nella valle di Mamand, ad Asadkheil. «La bomba è caduta lì, tra quelle due montagne, dove la terra è annerita», ci aveva mostrato nel novembre 2019 Sharifullah, un residente di Shadal Bazar, mentre passavamo per Asadkheil. «Ma Daesh ha resistito per altri due anni», continuava Sharifullah. Che si sbagliava. Lo Stato islamico è ancora attivo, dimostra la strage all’aeroporto di Kabul.