Durante l’infanzia si possiede una vista straordinaria. Si sa distinguere il visibile dall’invisibile, l’invenzione e lo scandalo di una ingiustizia, bambini e bambine sono il segno di qualcosa che muta, negli anni, fino a interpellarci. Dalle voragini del mare aperto alle pareti di un acquario, gli occhi dell’infanzia radunano ciò che significa il termine «profondità». Che sia essa storica, simbolica o semplicemente fantastica, racconta di un tempo prossimo e presente, sia nell’emotività di sottosuoli acquatici che nelle scandalose riemersioni. È il caso di due creature scomode della letteratura italiana, tra fantasia e allucinazione: il colombre di Dino Buzzati e il pesce-sirena di Curzio Malaparte, nella relazione che intrattengono con il circostante quando non si può più ignorare quell’aver visto, insieme alla comunanza che esiste con chi ne capisce e custodisce il peso, sopportabile o meno.

NELLA RACCOLTA Il colombre e altri cinquanta racconti (1966), lo scrittore veneto, nel primo breve testo di apertura, presenta il mostro marino, uno squalo che si rende visibile solo alla propria vittima. E che non si sa se sia mai esistito. Stefano Roi ha dodici anni quando per la prima volta, dal bastimento del proprio padre, lo scorge dalla poppa dell’imbarcazione. Il ragazzino intuisce ciò che dall’infanzia lo traghetterà nell’età adulta, «una cosa che spuntava a intermittenza in superficie», che manteneva la distanza «e sebbene egli non ne comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente». Da quella vertigine di sgomento infantile Stefano Roi imbastisce la sua privata ossessione, anche dopo che il padre gli impedisce di avvicinarsi al mare per lunghi anni perché il colombre, sostiene, è una maledizione che condanna a una morte certa. Quale sia la vista di Stefano è spiegato da Buzzati nella sua impuntura dell’abisso come elemento dissonante, che spezza il comune corso degli eventi e ci pone dinanzi a una irresistibile tentazione di cui non conosciamo i contorni. Li sentiamo però, intimamente. E quel sentire, a precipizio nell’inconscio, non possiamo più ignorarlo.

CREATURA MOSTRUOSA, dotata di un muso da bisonte e di una bocca che continuamente si apre e si chiude, non ha accanto a sé lo stesso dettaglio che Melville attribuisce a Moby Dick – seppure sia in evidente parentela letteraria – è però anch’essa grave, solitaria e nello sconcerto si agita imprendibile al di sotto delle umane sorti. È così che Stefano, avvolto da quel ricordo infantile, decide di lasciare tutti gli agi della sua vita laboriosa e tranquilla sulla terraferma per tornare in mare. Prende una barca e per tantissimi anni il colombre continua a seguirlo. Un amico caro non avrebbe saputo mostrarsi più fedele, eppure la distanza da quel corpo nemico dà all’uomo una rinnovata consapevolezza, decide dunque di perdersi tra le onde in un minuscolo barchino e di affrontare lo squalo.

ANIMALE IMMAGINARIO che vive nei fondali, molte sono state le ipotesi critiche fin dal nome che Buzzati ha attribuito al colombre, che tuttavia pare essere un gioco fonetico di parole malintese, al pari di ciò che confida lo squalo all’ormai vecchissimo Stefano, ovvero l’intenzione non di ucciderlo bensì di donargli la famosa perla del mare che protegge l’anima e la quotidianità di chi la possiede. Simile a un sasso luccicante, l’aveva in bocca per tutto quel tempo e nel fondo di se stesso il bambino forse lo aveva sempre saputo quanto nell’ambivalenza si scommetta la doppia forza di un rischio, seppellito poi dal cumulo di menzogne e preoccupazioni degli adulti.

Un fotogramma tratto dal film « La pelle», di Liliana Cavani (1981)

Nella vista che squarcia l’orizzonte storico, il fantastico può diventare crasi che genera capovolgimento. Se l’affiorare del colombre, nella paura e il terrore assedianti, ha comportato l’allenarsi al perturbante di uno spazio vasto come l’abisso, è di altro tenore ciò che allestisce Curzio Malaparte nel suo controverso romanzo La pelle (1949) quando, durante un banchetto molto esclusivo del generale americano Cork in onore di Mrs. Flat, presenta la portata principale.

In una Napoli falcidiata dalle conseguenze della guerra, non si va più in mare ma ci si rifornisce negli acquari. Da lì arriva lo strano pesce simile a una bambina, all’apparenza di una decina di anni, bollita e malandata, che tutti sembrano vedere. L’utilizzo ripetuto del termine «bambina» è nella perplessità attonita degli invitati tanto da non sapere se potersene cibare o meno, è lo scandalo delle creature indifese che soccombono al sopruso e al profitto. Ed è infine il perimetro di un occhio che si perde nelle strettoie di una storia grande, triturando chiunque. Indicativo che Malaparte pensi di poter descrivere l’inferno di un conflitto mondiale alla fine con una scena tanto indigeribile quanto ipnotica.

MENTRE STEFANO ROI è però l’unico a vedere ciò che dovrebbe essere il proprio aguzzino fino a scoprire che non lo è mai stato, quel pesce, servito tra ghirlande di coralli per la gioia dei commensali, diviene il pasto nudo di una collusione assassina e collettiva. C’è di più, in quel corpo anomalo dalle sembianze femminili, Malaparte (e meglio Liliana Cavani nella trasposizione cinematografica del romanzo del 1981) disegna gli orli di un sesso sacrificabile che la vista la conosce solo al passato. Lo scempio allora diventa l’irricevibile accettazione di chi ne patisce lo sguardo. Che vita ha fatto quel pesce-sirena prima di arrivare lì? È mai esistito nella sua parzialità di animale e di bambina o è forse il delirio di una disperazione? In quale maleodorante acquario della nostra storiografia riusciamo a collocare un simile abisso che è l’uccisione dell’infanzia?
C’è tuttavia una vista anche dopo la morte, sembra suggerirci il cinismo esatto di Malaparte. Una vista di cui non sappiamo niente e che ci porta a una lontananza profondissima con il mondo. È ciò che sta frontale a una minuscola e agghindata bambina sul tavolo cui nessuno ha creduto di abbassare le palpebre e dunque pare dormire ma a occhi spalancati. In alto – dice lo scrittore toscano – c’è un’immagine che ella sembra fissare. È lì che si innesca la visionarietà, fino a trasportare per un istante quell’esserino quieto nella schiera delle «piccole persone» sacrificabili di Anna Maria Ortese, «anime viventi» cui si scaglia contro la mortifera protervia umana.

E MENTRE Stefano Roi costruisce la sua futura bara in quel barchino alla deriva per scoprire la verità, il pesce dell’acquario di Napoli dalla sua tomba argentea «mirava i tritoni di Luca Giordano soffiar nelle loro conche marine, e i delfini, attaccati al cocchio di Venere, galoppar sulle onde, e Venere nuda seduta nell’aureo cocchio, e il bianco e roseo corteo delle sue Ninfe, e Nettuno, col tridente in pugno, correr sul mare trainato dalla foga dei suoi bianchi cavalli, assetati ancora dell’innocente sangue d’Ippolito. Mirava il Trionfo di Venere dipinto nel soffitto, quel turchino mare, quegli argentei pesci, quei verdi mostri marini, quelle bianche nuvole erranti in fondo all’orizzonte, e sorrideva estatica: era quello il suo mare, era quella la sua patria perduta, il paese dei suoi sogni, il felice regno delle Sirene».
Sono entrambi abissi dello spazio e del tempo, dove la vista dell’infanzia si chiude per la violenza della storia. O per la fine di un racconto.

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13 – continua