Tiziano Scarpa ha appena scritto una storia da leggersi a voce alta sull’orlo della notte, magari approfittando dell’insonnia, vera o presunta, di uno o più bambini, per ritrovarsi nel pieno di quella strana ansia di tanti anni fa, semplice e pulita, inconfessata, imprevedibile: il desiderio di sapere come va a finire. La penultima magia (Einaudi, pp. 218, euro 16,00) inizia in una notte «che dura troppo», come quella del libro di Isaia, ma senza rimbalzi di voci di vedette, perché ad aspettare il sole, qui, non c’è più nessuno. O meglio, c’è solo una donna, una «vecchia donna», una specie di fata, di attempata streghetta che festeggia il compleanno, i suoi «millantaquattro» anni: Renata, che parla con le cose, grandi e piccole, e vive insieme a loro, ascoltandole mentre respirano, sbadigliano, discutono, sorridono e la consigliano sull’andare della vita.

INTORNO A LEI c’è una città da fumetto, zeppa di tutte queste cose che si muovono, che raccontano buffe storie effimere o millenarie; una città stranamente vuota di esseri umani: «come / potrebbe tornare a esser bella, / scomparso l’uomo, la terra», come nei versi di Giorgio Caproni.
Curioso, poi, che quella città si chiami Solinga, richiamando l’aggettivo che riporta alla mente le notti di Dante, Leopardi e Carducci, ma anche la capitale tedesca dei coltelli, dei rasoi e delle lame d’acciaio. Non per caso, chissà, perché passa solo qualche pagina, e quel sonnacchioso paradiso lascia il posto alla luce sinistra di bombe, fuoco e distruzione: in un minuto il mondo si rovescia, e tutto intorno si sbriciola, si sventra, precipita, ammutolisce.

MA LA FATA RENATA non si perde d’animo: esce di casa accompagnata dal suo gatto di peluche, monta sul sidecar e, munita di un ramoscello d’oro – il più affidabile lasciapassare mai esistito per qualsiasi viaggio all’inferno e ritorno – tocca e ripara tutto ciò che trova, restituendo vita e colori a oggetti, monumenti, piazze, strade e giardini. Non tutto sarà, però, così semplice, di lì in avanti. Ai confini della città, circondata da desolazione, aria pesante d’inquinamento e centri commerciali, uno strano esercito è lì che aspetta la fata, tra l’incredulo e l’ostile: sono i cittadini di Solinga, intenzionati a voler riabitare la loro città, istigati da una coppia di amministratori – il sindaco e il suo ragioniere tuttofare – la cui devozione alla fuffa burocratica è in grado di mettere a dura prova le più arcane e potenti magie. I due ricattano Renata, minacciano di sottrarle ciò che ha di più caro, la piccola Agata, la nipote, che resterebbe sola al mondo senza di lei. Le fanno, insomma, «una dichiarazione di guerra».
Di lì in avanti, l’anziana fata è una tra di noi: deve rifare l’esperienza, scendere nell’inferno quotidiano senza più ramoscelli d’oro pronti a tirarla fuori, deve ridisegnare la vita. E di lì, insieme ad Agata, vivrà con il passo incerto, ridando ai giorni il colore d’avventura, ma piano piano, un punto alla volta, con sempre maggiore coraggio, ansia e curiosità.

NELLE SUE MANI, gli oggetti saranno come il secchio vuoto del cavaliere di Kafka: un po’ magici, un po’ strampalati: oggetti che ti promettono incantesimi, ma che finiscono per portarti dove vogliono loro, scatenandoti contro, d’altra parte, l’ottusità del mondo umano, i suoi apparati di vigilanza, gli elicotteri, i cani da fiuto. Renata, insieme alla piccola Agata e al gatto di peluche – tornato per l’occasione un gatto vero – si troverà così a inseguire un sogno, una parvenza di fantasma, una traccia del tempo, e a propria volta sarà inseguita da una stolta moltitudine di burocrati, di regolarizzatori senza più poesia. Scoprirà il mistero del tempo, Renata, e la voragine che separa le generazioni transitate sul pianeta: la difficilissima missione di avere fiducia in tutto ciò che non si vede, e che invece Agata, nei suoi pochi anni, ha già intuito. Logiche asimmetriche, lunghe attese nel silenzio, e improvvisi ribaltamenti. L’avventura si riempirà di molti motivi già rintracciabili nella narrativa di Scarpa: l’acqua, per esempio, nera, melmosa, cieca e inesplorabile come la morte, oppure ferocemente viva, limpida, torrenziale, come la musica che attraversava il corpo della giovane orfana Cecilia in Stabat Mater; e poi il disincanto: quello da svelare prima o poi ai bambini, sfogliando lentamente un mondo devastato dai nostri simili, dalle loro ottusità e smanie di comando, come nelle Cose fondamentali: «non voglio dirgli. Voglio raccontargli una cosa significativa». E questo desiderio di racconto, nella Penultima magia, assomiglia alla risolutezza di una mano infantile che trascina, che non lascia il tempo di incuriosirsi, perché è già oltre, a un’altezza nuova.

COME LA NONNA e la nipote, che alle pendici di una montagna inaccessibile incontreranno un ragazzo, una sorta di giovane eremita che vive in «un ammasso di vita selvaggia», dove addestra gli animali più mansueti – vitelli, pulcini – a diventare feroci, a difendersi, a non lasciarsi intrappolare. Dopo la notte delle cose, dunque, la notte degli animali: ingrassati artificialmente, imprigionati e sgozzati, trattati come nei campi di concentramento.
E tutto questo popolarsi di voci di vittime, di respiri inermi, che abiterà il mondo: voci che bisognerà pur sentire, ritagliandosi molto del tempo che non ci siamo mai concessi, perché qualcuno prima o poi potrebbe venire a prendere anche noi, in una qualsiasi notte «che dura troppo», nel silenzio pesante delle cose, dell’aria, delle vecchie fate, e di tutto.