Edward Norton torna alla regia dopo la commedia romantica Tentazioni d’amore con un patinato, complesso, noir hollywoodiano, saldamente ancorato alla pietra e ai mattoni di New York. Ufficialmente, Motherless Brooklyn è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Jonathan Lethem, pubblicato nel 1999. Ma l’attore di The Grand Budapest Hotel e di Birdman, qui anche alla sceneggiatura, trasporta il tutto indietro nel tempo di una quarantina d’anni, e frulla il plot investigativo del romanzo, incentrato su un detective con la sindrome di Tourette, in un denso pastone di storia e politica della Grande mela, intriso del sound di Thom Yorke, e virato in varie gradazioni di grigi e controluce dalla fotografia iperstilizzata dell’inglese Dick Pope – un po’ NY Confidential e molto Chinatown.

I RIMANDI non solo visivi: l’influenza del noir di Polanski si sente infatti moltissimo nel film di Norton – nelle atmosfere cariche di mistero e corruzione, nella presenza fugace di una donna che ha dei segreti, nella trama sociopolitica su cui incombe una minacciosa figura di potere che ha in mano il destino della città. La valuta di scambio qui non è l’acqua, preziosa come l’oro nei deserti della California, ma il controllo del piano regolatore ai fini di ridisegnare sviluppo e funzioni di New York a beneficio dei ricchi e a danno di poveri e afroamericani.

Moses Randolph (Alec Baldwin), «il padrino» che si staglia come un’ombra nera sul film, machiavellico e geniale allo stesso tempo, è infatti chiaramente ispirato al potentissimo urbanista Robert Moses, un repubblicano salito al potere con Franklin Roosevelt, che dietro alla carica di Assessore dei parchi (la detenne dal 1934 al 1960) fu responsabile di alcune delle scelte che più hanno impattato la storia della città -a partire dalla creazione di superstrade come la Cross Bronx Express way che, tagliando il tessuto urbano, ha favorito la segregazione razziale e sociale dei quartieri immediatamente a nord di Manhattan. Master Builder, l’immensa biografia di Moses dello storico Robert Caro è in effetti una fonte di Motherless Brooklyn quasi importante quanto il romanzo di Lethem.

IN QUESTO FILM così denso di riferimenti alti e a cui (si sente) Ed Norton lavorava da parecchi anni, entrano anche i testi che il neurologo Oliver Sacks ha dedicato alla Tourette. Afflitto da quella sindrome, il detective privato Lionel Essrog (Norton) ha difetti di dizione gravi, per cui le parole si incantano nella sua bocca e poi ne esplodono fuori a fiume, un po’ come la risata involontaria di Joaquim Phoenix in Joker. In compenso, la malattia fa sì che abbia una capacità di osservare e memorizzare dettagli fuori dal comune.

QUANDO il padrone della piccola agenzia investigativa per cui lavora, Frank Minna (Bruce Willis), fa una brutta fine, dopo un lungo inseguimento tra Manhattan e Queens, tentano di scoprire cosa c’è sotto, entrando così in contatto con una banda di gangsters (Fisher Stevens è il capo sadico), un ingegnere idealista forse legato a Randolph (Willem Dafoe), una ragazza afroamericana (Gugu Mbatha-Raw) che vive sopra una boite di Harlem e un’attivista (Cherry Jones) ispirata a un altro grande personaggio della storia di New York, la sociologa Jane Jacobs, le cui teorie sullo sviluppo urbano sono l’antitesi di quelle di Moses.
Norton comprime troppe trame, troppi personaggi, troppi discorsi in due ore e un quarto di film – l’affollamento di ambizioni colte, la voglia fare il genere ma anche di dire cose importanti» (Randolph è un Robert Moses dietro a cui fa capolino Donald Trump), l’amore per il dettaglio dei luoghi e la storia di New York sono quello che rende interessante Motherless Brooklyn. Ma in un certo senso anche il suo limite.