Il 15 agosto del 1261, dopo quasi sei decenni di dominazione latina, Michele VIII Paleologo, imperatore di Nicea, entrava solennemente in Costantinopoli, riconquistata il 25 luglio precedente, preceduto dall’icona della Vergine della chiesa del «Pantocrator». Volendo dare credito al cronista Giorgio Pachimere, il «nuovo Costantino» avrebbe trovato una città in rovina, pregna dell’odore nauseabondo della cucina dei latini, grassa e affumicata. Ma bisogna considerare il punto di vista fortemente polemico dello storico greco.

SI PUÒ SUPPORRE, tuttavia, ch’egli non fosse poi così lontano dal vero, tenendo conto delle spoliazioni subite dalla città nel corso della sua doppia conquista, consumatasi tra il 1203 e il 1204. Una capitale depauperata di tutti i suoi beni più preziosi, recati in Occidente ad adornare principalmente la città che, più di tutte, aveva contribuito a pianificare l’azione: Venezia. Come narra Niceta Coniata, grande logoteta e già cancelliere e segretario dell’imperatore, il 12 aprile del 1204, i crociati – normanni tedeschi, francesi, veneziani – dilagarono all’interno delle mura, nuovi barbari in preda a una furia distruttrice, vendicandosi del massacro perpetrato ai danni dei latini stessi nel 1182, allorché una popolazione furiosa li aveva cacciati dai propri quartieri.

I MASSACRI, le violenze, gli stupri, le ruberie, la distruzione di apparati e arredi sacri, la fusione delle statue per farne monete, il rogo dell’immenso patrimonio librario della capitale aprirono una ferita profonda; per certi versi, non ancora rimarginata.
Una vicenda, questa, che avrebbe segnato a lungo i rapporti tra i due polmoni d’Europa. Eppure – nota Marina Montesano nel suo Dio lo volle? 1204: la vera caduta di Costantinopoli (Salerno Editrice, pp.188, euro 16) –, soggetta a un trattamento diverso, a tratti assolutorio, da parte della storiografia rispetto alla posteriore conquista ottomana del 1453, caratterizzata, al contrario, dall’alterità religiosa, dimenticando quanto tale elemento avesse giocato, in termini culturali ma anche imperialistici, nell’ambito della conquista precedente.
Certo – ricorda la studiosa –, lo storico non deve giudicare, ma «neppure deve giustificare», e soprattutto, «non dovrebbe assumere pesi e misure talmente differenti da risultare ideologicamente sospette». Egli, insomma, è l’adepto della complessità; e la complessità esige che quel tragico evento torni ad avere un posto nella comune coscienza storica. Non si tratta di assumere un atteggiamento asettico, umanamente velleitario, se non impossibile, ma d’esercitare la critica.
È questo il motivo per cui Marina Montesano, dopo un’ampia contestualizzazione, necessaria per comprendere a fondo i presupposti, si concentra sulle fonti, di cui fornisce un’analisi accurata, per poi concentrarsi, più che sul lato bizantino della vicenda, su quello latino e papale. Senz’altro, Innocenzo III – il papa della plenitudo potestatis e di Francesco d’Assisi, dell’eucarestia e della crociata contro i catari – si trovò di fronte a una conquista imbarazzante. Ma non inattesa, visti i propositi già espressi in tal senso da diverse teste coronate; non ultimo, Federico Barbarossa. Come nota l’autrice, ne mostra bene «il tentativo (riuscito solo in parte) di cavalcare l’onda dell’esercito crociato: certo, se dopo Costantinopoli si fosse proseguito per Gerusalemme sarebbe stato meglio; meglio ancora se i greci avessero accettato la sottomissione». Ma le cose andarono diversamente. Tanto valeva approfittarne.

QUALI, DUNQUE, le giustificazioni? Le fonti a disposizione, oltre a evidenziare la diversità religiosa della comunità greca, scismatica e perfino eretica, non fanno che sottolineare la «fortuità» dell’evento. Si tratta d’un tema ricorrente in buona parte della storiografia odierna. Del tutto ribaltabile alla luce dei rapporti instaurati tra Venezia, il papa e la città sul Bosforo nel corso della seconda metà del secolo precedente. Ve n’è abbastanza per affermare che il trionfo del primato papale sulla recalcitrante Chiesa greca non dispiacesse affatto. E ciò nonostante tale affermazione avesse, in fin dei conti, breve durata.
L’età paleologa, inaugurata nel 1261 non sarebbe stata altro che un pallido riflesso dei fasti d’un tempo. Coloro che avrebbero potuto assicurare la difesa della città dalla montante marea turca, genovesi e veneziani, non faranno altro che combattersi. L’impero si ridurrà presto alla sola capitale. Soltanto la conquista del 1453 riuscirà a rivitalizzarne lo splendore, «anche se con una religione differente, ma in un contesto multiconfessionale, a differenza di quello auspicato dai cristiani che l’avevano conquistata nel 1204».