Annunciato a sorpresa all’inizio di gennaio rispondendo a un fan che gli chiedeva come procedeva il suo lockdown, il 25 febbraio è uscito Carnage, il primo album firmato a nome Nick Cave e Warren Ellis (già autori insieme di molte colonne sonore). Per essere il frutto di un impulso irrinunciabile alla creazione, e senza i Bad Seeds, è talmente sorprendente da lasciare quasi senza fiato: Nick Cave ha compiuto un altro salto evolutivo e ancora una volta ci stende tutti. Nel disco suonano un quartetto d’archi, due batteristi (uno è Thomas Wydler), un coro e una chitarra acustica, mentre Warren Ellis dispiega i suoi utensili abituali (violino, viola, flauto contralto, chitarra tenore, pianoforte, harmonium, sintetizzatore, loops, drum machine, glockenspiel, auto harp).

«CARNAGE» È UN DISCO che si muove fra presente e passato, che torna alle radici australiane di Cave, rievocando immagini della sua infanzia ed episodi impressi nella psiche come archetipi: lo zio-boia che decapita i polli e li trasforma in fontane, mentre il piccolo Nick scalzo osserva la scena. Subito dopo è di nuovo l’uomo adulto con in mano il libro di una delle sue scrittrici preferite, Flannery O’Connor. Immagini, pensieri e ricordi vengono alla luce in un tempo di riflessione forzata: Nick Cave è l’uomo seduto al balcone che legge, scrive in modo compulsivo e pensa alle cose.
È una scrittura non narrativa, visionaria e simbolica. Il fiume è il luogo di avventure di un’infanzia e adolescenza libere e selvagge, diventa biblico, fonte battesimale e infine trasfigurato nel corpo dell’amata distesa sul letto (Hand of God). Nelle canzoni vive un’immagine mitizzata della coppia coniugale, che esce trasformata e rafforzata dalla tragedia. In Old Time i due si smarriscono dopo aver imboccato una strada sbagliata, come in una fiaba dark, e si ritrovano in un passato simile al presente: «Gli alberi sono neri e la storia ci ha messi in ginocchio in un tempo freddo, dove i sogni di tutti sono morti». Si ripetono immagini di fuga, di evasione dal presente e rifugio in un altrove temporale, in cui l’io era il vecchio io (prima della catastrofe) e la vita era avventura, sesso consumato vivacemente in motel, mentre la radio suona By the Time I Get to Phoenix, uno dei suoi brani preferiti.

SOPRATTUTTO, se si ascolta con attenzione, dentro Carnage ci sono i nostri pensieri: Nick Cave ci legge nel cuore, pensa le nostre stesse cose e le dice meglio. La sua dimensione lirica è collettiva. Albuquerque siamo noi: una ballata sulla futilità dei nostri piccoli progetti di fuga dalla condizione distopica che ci immobilizza, i viaggi che sogniamo, rimandandoli di poco, sempre più spesso, finché non vengono stritolati dalla realtà: And we won’t get to anywhere, darling Anytime this year And we won’t get to anywhere, baby Unless I dream you there

POI ARRIVA la pietanza. Carnage è pieno di riferimenti alla cronaca recente e recentissima, citati in modo riconoscibile, ma trasfigurati in chiave mitologica. White Elephant è fitta di richiami alle cronache di quest’ultimo anno. George Floyd e la statua di Edward Colston a Bristol sono condensati in un’immagine surreale e tragica: «Un manifestante mette il ginocchio sul collo di una statua, la statua dice non riesco a respirare, il manifestante risponde così adesso sai che significa e la butta a mare»; il presidente che chiama i federali non può che essere Trump durante l’assalto a Capitol Hill e il delirio del cacciatore di elefanti suona paurosamente simile a quello di un suprematista bianco: I’ve been planning this for years, I’ll shoot you in the fucking face, If you think of coming around here I’ll shoot you for just for fun

QUELLO che ai Vecchi Tempi delle Murder Ballads era il monologo di Stagger Lee, personaggio leggendario di un Far West mitologico, oggi è qui tra noi e suona come lo hate speech dei sostenitori di Trump. O, cosa ancora più agghiacciante, come quello di un cittadino qualsiasi incattivito dal protrarsi della pandemia, pronto a esplodere alla minima provocazione, per un senso montante di sopraffazione, mentre gli scontri ideologici si radicalizzano nelle fazioni di un conflitto civile. Ma poi, almeno nella canzone, tutto si scioglie nel lieto fine di un crescendo gospel, sinfonico, liberatorio e probabilmente ironico. Ascoltando Lavender Fields, ci si chiede quanto la pandemia abbia intensificato la riflessione sulla propria caducità in un uomo dal sistema immunitario compromesso da lunghi anni di abusi e moralmente segnato da un lutto personale insormontabile.
In Shattered Ground, la voce di Cave mesta e furiosa canta di altre possibili separazioni e addii. Di nuovo è la coppia l’unica certezza dell’esistenza terrena, una coppia che trasforma una duplice follia in una specie di sanità mentale: And there’s a madness in her and a madness in me And together it forms a kind of sanity.
Carnage è la carneficina che da un anno tutti abbiamo sotto gli occhi, visibile giorno dopo giorno solo sotto forma di cifre, statistiche e percentuali mutevoli, in un raffronto continuo tra un paese e il resto del mondo, illusoriamente diversi ma profondamente uguali sotto la stessa catastrofe. Ma Carnage è vivo e palpitante, perché la carneficina è anche quella delle nostre vite quotidiane menomate dalle restrizioni, alienate da meccanismi di adattamento contronatura. Carnage incarna lo spirito dei tempi, cantato da un uomo che, come un eroe tragico, combatte un destino più grande di lui e della storia, mentre riflette su se stesso e l’umanità. E canta – per restare vivo – otto canzoni in cui possiamo rispecchiarci tutti noi che non ci riconosciamo più (And sometimes I hear my name, Oh where did you go?), che ci sentiamo cambiati e strani, come sotto l’influsso di un’erba magica: People ask me how I’ve changed. I say it is a singular road. And the lavender has stained my skin And made me strange.

NELL’ULTIMO BRANO, Balcony Man, oltre a dialogare con un interlocutore che ai Vecchi Tempi avremmo trovato improbabile (Fred Astaire), Nick Cave ci dice che cosa abbiamo imparato in questi dodici mesi: What doesn’t kill you just makes you crazier. In questa pestilenza che rende folli quelli che non uccide, oltre che essere una sintesi poetica sullo stato delle cose, Carnage è una lezione di vita, forza d’animo, arte e resistenza. È anche il nome del demone della sua vocazione.