Una città trappola, labirintica, in cui l’uomo contemporaneo lotta alla ricerca di una via di fuga in un confronto serrato con figure di potere. Un vortice di immagini tra personaggi arcaici proiettati nel film in bianco e nero che domina lo sfondo e un cast di danzatori e attori in carne e ossa che scuote la scena con un impasto energetico di voci, musica, canto e movimento. Tutto questo è TrapTown, l’ultima creazione del coreografo belga Wim Vandekeybus, 33 anni dalla fondazione nel 1986 della compagnia Ultima Vez, tra i titoli di maggior richiamo dell’apertura il weekend scorso a Firenze della XXVI edizione di Fabbrica Europa. Un’esclusiva nazionale presentata al Teatro della Pergola, a ridosso di Free Bach 212 della Fura dels Baus alla Stazione Leopolda, altro titolo chiave dell’inaugurazione del festival. Regista, coreografo, interessato alla creazione di opere nutrite della commistione linguistica tra cinema, danza, teatro, musica, arti visive, Vandekeybus si è sempre circondato di artisti di vario campo per mettere a fuoco le sue creazioni.

SOTTO IL PROFILO corporeo il movimento che vibra nelle sue coreografie è segnato da rischi dinamici, voli che rimbalzano dentro e via dalla gravità. Una lingua che ha accompagnato negli anni storie e visioni, alcune indimenticabili come quelle di What the Body Does not Remember del 1987, ripreso dopo 25 anni dal debutto. TrapTown, creato su un testo dalle suggestioni primordiali di Pieter De Buysser, vede in scena otto potenti interpreti, alle prese con un luogo claustrofobico. Uno spazio cunicolare, terroso, che Vandekeybus rivela nel film con formidabili riprese in corsa in soggettiva.

UNA STORIA mitologica, visivamente arcaica nella figura del sindaco che governa la città a contrasto con il giovane eroe, figlio dello stesso sindaco (interpretato da una donna) e simbolo di un rinnovamento non facilmente raggiungibile. Cinematografica e trascinante la musica di Trixie Whitley e Phoenician Drive che accompagna lo spettacolo, il testo però, denso e molto presente (lo spettacolo dura due ore senza intervallo) a tratti schiaccia la grinta comunicativa degli interpreti, facendo risaltare più la confezione, di per sé esteticamente ineccepibile, che la pregnanza del racconto.