Marco Colonna è il nono jazzista (categoria “musicista italiano dell’anno”) nel referendum annuale della rivista Musica Jazz; non ama molto la definizione di jazzista forse perché, come afferma, “ho girato il mondo con la musica etnica, ho forzato i miei limiti con la musica contemporanea, ho manifestato il mio pensiero politico con il jazzcore”. Arriva alla Casa del Jazz per il ciclo “En solo” – dopo Eugenio Colombo e Giancarlo Schiaffini – con tutto il suo radicalismo: Colonna è, con coerenza e rigore, un “apocalittico”, un artista che porta avanti idee senza compromessi,  “glocal” in modo profondo, contro le ingiustizie di un mondo distopico. A sentirlo c’è un pubblico che, in gran parte, lo conosce e lo sostiene nella sua performance Prometeus: un mito che il clarinettista romano riprende attraverso la narrazione di storie. Ogni brano ha una dedica, ogni pezzo viene illustrato in breve – con chiarezza ed (auto)ironia -, ogni musica costituisce un tassello di una poetica “resistente” e non rassegnata, prometeica nell’Italia e nel mondo attuale. Alternandosi ai tre clarinetti, suonandone a volte due in contemporanea Marco Colonna evoca lo scomparso Perry Robinson, il naufrago con la pagella cucita nei vestiti, le vittime dei naufragi nel Mediterraneo, Berta Caceres, Violeta Parra, Albert Ayler di cui esegue Children al clarinetto basso con tensione e furore esemplari. Una volta si sarebbe detto un “artista militante” ma oggi Colonna appare come un grande musicista dai mezzi tecnici illimitati cui unisce la lucidità dell’analisi e la passione di chi non si piega. I suoi passaggi in fiato continuo, i contrasti timbrici, le tumultuose improvvisazioni hanno un fondamento etico e uno spessore umano che è raro trovare. Il 9° posto rappresenta un tardivo riconoscimento per un musicista che, comunque, procede per la sua strada, in un radicalismo esistenziale.

Marco Colonna

DI “CAMERISMO RADICALE” (riprendendo una “categoria” del critico Claudio Sessa) si può parlare per il Very Practical Trio guidato dal contrabbassista-compositore californiano (da tempo newyorkese di adozione) Michael Formanek che comprende l’altista Tim Berne (i due collaborano da decenni) e la giovane chitarrista Mary Halvorson. Il trio ha percorso l’Italia tra il  14 ed il 22 gennaio suonando a Catania, Palermo, Mantova, Mestre e nella capitale. I tre incarnano la scena del jazz creativo di New York a cui Formanek e Berne hanno dato contributi significativi fin dai primi anni ’90 mentre la Halvorson è presente nelle più recenti esperienze con il suo originale chitarrismo. Ha uno stile che unisce elementi e stilemi disparati (da Jim Hall a Bill Frisell passando per il bottleneck del blues) in una sintesi inedita e spiazzante. Quella del trio è una musica che ha colore, struttura definita e dinamiche inconsuete ma nel concerto romano è risultata un po’ “fredda” e distante. Saranno state le scarse parole del leader, il ripetersi di alcuni schemi compositivi o gli influssi di una rigida serata invernale in un auditorium deserto di altre attività. Fatto sta che il Very Practical Trio non ha sedotto più di tanto nonostante il valore dei tre musicisti e il preziosismo di vari passaggi, con l’alto ispirato di Berne, la potenza del contrabbasso del leader e la versatilità della Halvorson, tra solismo-accompagnamento- fraseggio-gioco timbrico. Ha prevalso il camerismo e il radicalismo è sembrato manierismo, almeno nel recital romano.