«Sapere i nomi di chi fa del male o trama per contendere il potere a chi a sua volta se l’è accaparrato ma saperli così tanto per dire senza le prove o un solo indizio non serve proprio a niente o forse appena a lamentare il proprio isolamento d’artista che comprende ma rimane incompreso a sua volta dalle masse dei troppi inconsapevoli felici d’ascoltare in silenzio ogni denuncia che non cambi però la loro vita». Sono parole di profezia ma anche un arrangiamento retrospettivo di pensieri. Parole di pensiero in prosa che vivono in un continuum futuro-passato, e lo fanno secondo un ritmo preciso. Possiamo infatti anche leggerle così, nel loro andamento endecasillabico: «Sapere i nomi di chi fa del male/ o trama per contendere il potere».

POESIA IN PROSA di pensiero, suoni che scaturiscono dal siero della penna per fissarsi nel testo delle nostre teste, in una «rievoluzione» permanente. Questo produce l’ultimo libro di Gabriele Frasca, Lettere a Valentinov (Luca Sossella editore, pp. 164, euro 14), in un alternarsi di tuffi in passati vari, tutti quantisticamente collegati: quello della rivoluzione bolscevica, quello del movimento giovanile, tra scontri coi fascisti e cariche della polizia, quello della denuncia pasoliniana, che è un’iperstizione quasi, una profezia che si autoavvera perché non la si possa falsificare.
Il volume si compone di tante cose, a partire dalle lettere iniziali, di cui si ripercorrono persino, e con coraggiosi squarci autobiografici, le difficoltà iniziali di diffusione. Difficoltà superate grazie anche al fermo volere di un editore intellettuale, uno dei pochi del paese. Dedicate idealmente a Nikolai Valentinov, le lettere proseguono un discorso inaugurato da Frasca con la prefazione alla Storia della rivoluzione russa di Trockij pubblicata del 2018. Nelle pagine di Trockij, diceva allora l’autore, «torna puntualmente a risorgere» la rivoluzione d’ottobre e lo fa preservando «la funzione d’onda di Lenin».

Le pagine di Frasca ugualmente propagano quella stessa onda, superando e anzi infiltrandosi nelle crepe del tradimento di idee rivoluzionarie: un tradimento che è uno specchio incrinato attraverso cui si riflettono oscuramente altri tradimenti, altre menzogne. Quelle ad esempio legate alla reazione dell’ordine mondiale alla situazione pandemica globale, collegata in maniera rivelatrice alla grande bugia che circondò le ondate della cosiddetta «influenza spagnola» e le loro tetre relazioni con la strage incalcolabile della Grande Guerra: «Ora però che dalla falce d’ombra della prima e seconda si distacca la faccia quasi blu dell’ecatombe che persino la storia ci ha nascosto nella fossa comune della guerra come possiamo non capire ancora che non c’è stata forma di governo né scuola filosofica né setta religiosa in quell’epoca e nemmeno comunità scientifica che al dunque non abbia scelto d’essere asservita alle ragioni stesse del massacro».
Le lettere in poesia, nel libro, lasciano gradualmente campo alla poesia di altre missive affidate al vento: la sezione «Quarantena», con la bellissima Dove m’hanno condotto le vecchie parole, l’esplosione grafica e verbale di Agli sgoccioli, in cui le parole sparse nella pagina occupano lo spazio dell’immarginabile, direbbe Joyce, gli 8 sonetti da Shakespeare e così via, in un vortice di pensiero pensato e pesato, sentito bruciare sulla propria pelle, un pensiero che non evapora e che non può essere vaporizzato.

SE IL LIBRO di Frasca è una delle opere più importanti degli ultimi decenni, lo è perché ci spinge a soffermarci su una questione di fondo della nostra cultura: qual è il ruolo, il posto, del plasmare poetico? A che serve la poesia? Perché scriverne ancora? L’autore stesso, anni fa, scrisse che una poesia è la traduzione di un originale perduto. Una creazione non ex nihilo ma anzi, un traslare, un riesumare spazi condivisi che abbiamo smarrito per farli e farci resistere e «riesistere».
Troppo spesso circolano lamentazioni più o meno apologetiche e consolatorie riguardo alla morte della poesia. Ma la poesia è un non-morto, è una lettera che non muore, è una dead letter, una lettera sì smarrita, ma di certo affrancata e imbucata. Perché possa affrancarci, quando la si riceverà. Le Lettere a Valentinov hanno anche questa funzione: aprire crepe in muri desolanti e solo all’apparenza incrollabili e forieri di pessimismi. Sanno dirci che smarrirci non deve spaventare, perché anche le lettere smarrite saranno un tempo recapitate. Ed è allora che si intuirà il senso segreto di quell’originale perduto, una natura condivisa che non vogliamo vedere, uno spazio comune di visione che ad alcuni piace chiamare «divisione». L’originale perduto è invece unità, ed è il suo manifesto che può spingerci avanti.